SPECIALE JIM JARMUSCH
“Hai ucciso l’uomo bianco che ti ha ucciso?”
“È tempo di andare per te, William Blake. È tempo di tornare da dove sei venuto, nel posto dal quale sono venuti tutti gli spiriti e al quale tutti gli spiriti tornano. Questo mondo non ti appartiene più”. “Colui che parla forte senza dire nulla”, l’indiano soprannominato Nessuno, dice queste parole a William Blake/Johnny Depp.
Kafkiano e labirintico, questo è Dead Man, film di Jim Jarmusch presentato in concorso a Cannes nel 1995. Un’opera complessa, ermetica, un po’ western – per molti solo il guscio –, un po’ road movie, un po’ teatro dell’assurdo. Sul treno verso Machine, limbo tra vita (Cleveland) e morte, William Blake è impaurito dalla fauna umana che lo attornia, spaventato dalle domande di uno sconosciuto. Tiene strette tra le mani le sue uniche certezze: la valigia e il certificato di assunzione presso la ditta Dickinson; per Blake però nulla è certo, anche le sue poche sicurezze ad un certo punto si sgretolano. Spari. Dissolvenza. Morte. Dissolvenza. Uccidere chi ti ha ucciso. Dissolvenza. Il cineasta mette in scena lampi crudeli, ferite visive, impressioni di una vita passata. Al centro c’è il Viaggio, quello dalla vita alla morte, un percorso d’iniziazione dalla “normalità” alla violenza, un’immersione nella melma più profonda, risultando spettacolo poetico di rara e sinistra bellezza. La Violenza di Dead Man è quella degli avvenimenti casuali, delle morti impreviste, spietata perchè incontrollabile, truculenta perchè unica arma dei bifolchi. William vive con un proiettile vicino al cuore – primo stadio della sua lenta ma inesorabile decomposizione. Il Nostro e Nessuno, vagano privi di patria, il primo senza padre, madre, donna, lavoro; il secondo, miscellanea di cultura occidentale e indiana – emblema di molto cinema di Jarmusch a cui è caro il confronto tra culture diverse –, privato di una terra in cui abitare. La sensazione angosciante e claustrofobica che si ha, nonostante imperi il nomadismo, è di stare ontologicamente fermi, immobili in una sorta di stasi metafisica ed esistenziale. Viviamo un tempo passato, che in realtà prende le forme di un eterno, immanente presente, quasi letterario, dantesco e omerico. In questo poema della “decostruzione” umana, della perdita del sé, del farsi morte, primeggia il bianco e nero, amato da Jarmusch, colore che sembra lavorare per sottrazione e che invece enfatizza “perdita”, paura, morte. Spirituale e blasfemo, poetico e violento, vitale e mortifero, Dead Man è un coacervo di scosse elettriche che non lascia in pace, un magma di intestini e viscere che tiene in sé tutte le domande più crude e penose; e tutto questo si ripercuote sul corpo e sulla mimica di Depp che esprime fisicamente con la sensibilità e naturalezza che gli sono proprie il disagio e il lento scivolar via della vita.
Dead Man [id., USA 1995] REGIA Jim Jarmusch.
CAST Johnny Depp, Gary Farmer, Lance Henriksen, Michael Wincott, Robert Mitchum.
SCENEGGIATURA Jim Jarmusch. FOTOGRAFIA Robby Muller. MUSICHE Neil Young.
Drammatico, durata 121 minuti.