SPECIALE JIM JARMUSCH
L’inconsistente sogno americano
Originariamente concepito come cortometraggio e realizzato in bianco e nero sugli scarti di Lo stato delle cose di Wim Wenders, l’opera seconda dell’allora trentunenne Jim Jarmusch narra, tra disincantato umorismo e forti venature esistenzialiste, di un viaggio on the road compiuto da due inconcludenti hipster newyorkesi e da una giovane parente emigrata dall’Ungheria.
Diviso in tre atti, Stranger than Paradise è un accorato inno al low budget, con soli 13 giorni di lavorazione per una spesa totale di circa 120 mila dollari, e si distingue per i suoi accentuati rimandi alla Nouvelle Vague francese nello stile e alle atmosfere asettiche e cristallizzate dei dipinti hopperiani nei contenuti proposti. Dal punto di vista tecnico, il film si caratterizza per un impianto estetico minimalista e monocorde, dove il fluire della narrazione è principalmente costituito da una serie di micro-piani sequenza ed interminabili stalli della macchina da presa, il tutto rigorosamente cadenzato da prolungate dissolvenze in nero. L’effetto che ne deriva è quello di un vero e proprio appiattimento dello spazio metropolitano, sia esso rappresentato da un trasandato appartamento newyorkese o da un immenso spiaggione nell’assolata Florida, che ben si confà all’idea di disillusione “godardiana” incarnata dai tre protagonisti. Dal punto di vista tematico, tale livellamento dello spazio urbano rimanda implicitamente alle tematiche hopperiane sulla solitudine dell’individuo in perenne ricerca di un qualcuno o qualcosa che riesca a colmarne gli immensi vuoti esistenziali. Così come nel celebre dipinto The Nighthawks, i tre giovani di Stranger than Paradise sono come ermeticamente immersi in una bolla di vetro dal pallido grigiore cromatico e che ne previene ogni contatto con l’esterno. Allo stesso modo, le ambientazioni in beat-style presenti in tutta la pellicola trasudano di squallore comunicativo, quasi a metaforizzare l’aridità e la disomogeneità affettiva di coloro che vi abitano. A questo proposito, non mancano guizzi d’ironia e velata critica a tale aspetto del reale, come l’interminabile piano sequenza sui volti ipnotizzati dei protagonisti seduti, uno accanto all’altro, in una buia sala cinematografica, intenti a divorare pop-corn con gesti lenti e meccanici. Il sogno americano proposto da Jarmusch, dunque, è inconsistente e vacuo, sia per chi si sforza di farne parte rinnegando le proprie origini, come nel caso di Willie, sia per chi se lo idealizzava diversamente e fatica a trovare un senso alla propria nuova e conformata esistenza, come nel caso di Eva. Non resta altro che trovare un rifugio dalla realtà asfissiante ed opprimente attraverso un viaggio verso l’incertezza e in totale assenza di riferimenti spaziali e temporali. Ma anche quest’ultimo, tuttavia, si riduce alla consuetudine ed alla noia.
Stranger than Paradise [id., USA 1984] REGIA Jim Jarmusch.
CAST John Lurie, Richard Edson, Eszter Balint.
SCENEGGIATURA Jim Jarmusch. FOTOGRAFIA Tom DiCillo. MUSICHE John Lurie.
Commedia/Drammatico, durata 89 minuti.