Chissà chissà domani
Con la vittoria di Cheatin’ di Bill Plympton, notevole per il disegno ma non entusiasmante nella sceneggiatura, si è chiusa l’ultima edizione del Future Film Festival, uno sguardo a 360° sui futuri possibili e immaginabili, e sul futuro del cinema, principalmente quello d’animazione e fantascientifico in senso lato.
Così, la breve retrospettiva Futuropolis si è soffermata su mondi distopici, dove l’idea stessa di umanità è messa in discussione dalle condizioni di vita, dalla presenza di androidi et similia, dalle disuguaglianze economiche e sociali, in due grandi film giapponesi, Jin-Roh – Uomini e lupi di Hiroyuki Okiura e Metropolis di Rintaro, ancora affascinanti e sorprendenti in tutti gli aspetti, e nei meno riusciti In Time di Andrew Niccol e La città dei bambini perduti di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro.
Nei film in concorso, invece, la crisi mondiale in cui viviamo da anni, ormai, si riflette persino nello scanzonato McDull: The Pork of Music di Brian Tse, dove la scuola frequentata dal maialino protagonista è alla disperata ricerca di denaro e rischia di chiudere. Nel Brasile inquietante del 2096, raffigurato nella parte finale, la più riuscita, di Uma História de Amor e Fúria di Luiz Bolognesi, scoppia una guerra per accaparrarsi l’acqua. L’importanza dell’ambiente e della natura è alla base di Tante Hilda, il film di Jacques-Rémy Girerd e Benoît Chieux, in cui la Hilda del titolo, doppiata dalla grande Sabine Azéma, è una botanista alle prese con le avide speculazioni della sorella Dolores.
Tante Hilda vale anche per l’efficacia con cui sviluppa il rapporto tra le due sorelle, è una storia di legami famigliari, proprio come il crudo, sboccatissimo, eccessivo The Fake del coreano Yeon Sang-ho, in cui si fa fatica a trovare un personaggio positivo. Ma il più bel film sulla famiglia di questa edizione del Festival è il delicatissimo, commovente Ma maman est en Amérique, elle a rencontré Buffalo Bill di Marc Boréal e Thibaut Chatel: ottima colonna sonora, semplicità del tratto, ligne claire come in Tintin.
Gli altri due film francesi in concorso sono il riuscito, lirico, autobiografico Jasmine di Alain Ughetto e il vivacissimo Aya de Youpogon di Marguerite Abouet e Clément Oubrerie, degno di essere ricordato almeno per la protagonista, la giovane Aya, determinata e intelligente come pochi altri personaggi femminili. Un film che fa ridere di gusto in molte scene, quasi come l’esilarante Goool!, diretto da quel Juan José Campanella vincitore di un Oscar per Il segreto dei suoi occhi. Arriva dal Sudamerica anche Carlos Saldanha, che ha accompagnato l’anteprima del suo Rio 2 – Missione Amazzonia 3D, evento che ha attirato molto attenzione, insieme all’incompreso e sottovalutato The Wind Rises di Hayao Miyazaki. Il nordamericano Don Hertzfeldt, invece, con It’s Such a Beautiful Day, sembra non poter reggere un lungometraggio intero, risultando un po’ ripetitivo nel suo sarcasmo depresso. La delusione maggiore, però, è Short Peace, nonostante il nome di Katsuhiro Otomo: i quattro episodi risultano piuttosto inconcludenti e manca un vero filo conduttore.
Concludendo, la Francia sembra la vera vincitrice di questa edizione per varietà e qualità delle proposte. Speriamo solo che la mancanza di film italiani non porti al solito, insopportabile lamentarsi, che è da decenni lo sport nazionale per eccellenza.