SPECIALE LARS VON TRIER
Dichiarare la commedia, con amore
Che Lars Von Trier sia stato e rimanga un assiduo sperimentatore di linguaggi, questo ci è stato chiaro fin dai suoi primi lavori. Quando ne Il grande capo alle sue soluzioni visive è corrisposto il cuore pulsante di un racconto concluso – e per di più un inusuale omaggio ai toni della commedia – il risultato si è rivelato ancora più convincente.
Quello che infatti manca al vario e discontinuo Nymphomaniac (per lo meno nella sua prima parte non integrale) è l’ambizione, del resto rara in Von Trier, ad amare i propri personaggi, a raccontarci qualcosa del mondo emotivo di Joe e Seligman al di là della tensione platonica del loro incessante dialogo. Il risultato sembra proprio scivolare nella commedia (volontaria o involontaria?), in cui a confrontarsi non sono le persone ma le idee e le più eterogenee nozioni, destinate forse a collimare in una grande mappa concettuale del desiderio e della sessualità, ma apparentemente incapaci di trovare nella confessione della donna quella ferita che è motore di identificazione da parte dello spettatore (e che forse soltanto il finale lascia intravedere). Ne Il grande capo, al contrario, accade qualcosa di nuovo e sorprendente: la commedia, con tutti gli snodi e maschere tradizionali di riferimento, è fin dall’inizio dichiarata dallo stesso Lars, che parla in voice over e si palesa riflesso sulle finestre del set; contrariamente al racconto di Joe, lo spettatore è immediatamente rassicurato sull’artificio retorico della confezione, e invitato a godersi lo spettacolo perché tutto sarà finto, proprio come nel più codificato dei meccanismi teatrali. Il teatro e la sua finzione abitano la storia stessa, poiché Ravn, che vuole vendere la sua azienda informatica, ingaggia Kristoffer, un attore disoccupato, per interpretare davanti al compratore e ai colleghi il ruolo del grande Capo: un regista, un attore, un pubblico in attesa di un epilogo. Aggiungiamo la sagace maestria con cui Von Trier costruisce il racconto dei meccanismi aziendali come una farsa demenziale di Finzione elevata al quadrato (meno dici di sapere, più passi da competente); e non dimentichiamo che, notoriamente ossessionato dal mezzo, il nostro Lars si lancia anche nell’uso dell’automavision, sfruttando l’ingrediente che un computer divenuto operatore porta con sé: pura casualità. Ne deriva una discontinuità di montaggio, di fotografia e di suono, votati alla frammentazione e alla perdita del controllo. Chissà se era un film a tesi mascherato da screwball oppure no. Di fatto Il grande capo ci lascia intravedere, come in pochi altri film di Von Trier, la possibilità di identificarci con quei piccoli, ridicoli personaggi, il sospetto di provare tenerezza ed empatia, forse addirittura amore, per le loro vite a vuoto.
Il grande capo [Direktøren for det hele, Danimarca/Svezia 2006] REGIA Lars Von Trier.
CAST Jens Albinus, Peter Gantzler, Iben Hjejle, Mia Lyhne, Jean-Marc Barr, Henrik Prip.
SCENEGGIATURA Lars von Trier. FOTOGRAFIA Automavision.
Commedia, durata 99 minuti.