X Science+Fiction, 11-14 dicembre 2010, Trieste
Italiani nello spazio
Se in questi anni Trieste ha recuperato il ruolo di capitale della fantascienza in Italia, quale le spettava ai tempi dello storico festival cui Science Plus Fiction si ricollega orgogliosamente, ciò lo si deve anche alle scelte storiografiche della direzione artistica.
L’idea, di anno in anno, non è solamente di celebrare ottusamente un fenomeno popolare, ma di sottrarlo alle mistiche della cinefilia militante. Vero è che per la sezione Italiani nello spazio si è rafforzata l’alleanza con la rivista Nocturno, che ha ospitato uno speciale ricco e completo dallo stesso titolo, ma proprio nel territorio del “bis” i contenuti si sono poi rivelati solidi e pieni di competenza, anche grazie alla collaborazione di maestri come Lorenzo Codelli (forse il critico più enciclopedico di sempre), Giuseppe Lippi e Giovanni Mongini. Master of science fiction, regista dell’intera operazione, il lodevolissimo Daniele Terzoli.
Dunque, a rivedere oggi tutti quei film e a ripensarne la qualità generale, dobbiamo chiederci che cosa ci ha lasciato la fantascienza italiana. Anzitutto, bisogna ragionare sui termini di riferimento per questo genere: e se è vero che prima o poi bisognerà affrontare il tema del “fantastico” – non dunque fantascientifico – nel cinema italiano e del suo rapporto conflittuale con il dominio realista del nostro immaginario, per ora possiamo dire qualcosa di strutturato sulla science fiction tricolore.
L’annosa questione, del resto, è sempre la stessa: è stata l’assenza di un feeling con la tecnologia, in un paese a forte vocazione prima contadina, poi manifatturiera, a determinare l’apparente fatica attraverso la quale il cinema italiano ha introdotto la fantascienza nelle sue maglie? O le ragioni vanno spiegate con maggior acume? La sensazione è che la fantascienza italiana meriti un posto particolare nel pur omologo settore dei generi popolari a trazione non autoctona. Il western, il peplum e l’horror hanno tutti posseduto un evidente carattere esterofilo, confermato dalla falsificazione degli ambienti e dei paratesti, e ciò ha permesso di superare i patri confini finendo con l’influenzare ampi settori delle cinematografie internazionali, e americana in particolare; ma la fantascienza – pur al netto delle proprie anticipazioni (uno su tutti, il caso di Terrore nello spazio di Mario Bava, 1965, precursore di Alien) – sembra un caso a parte. Non è un caso che questa industrializzazione assai poco “tecnofila” dell’Italia produca proprio nella fantascienza forme allegoriche di stampo ideologico, come Il disco volante di Tinto Brass e soprattutto Omicron (1963) di Ugo Gregoretti, dove l’alieno finisce addirittura a guidare uno sciopero operaio. Non parliamo, poi, delle metafore sociologiche di La decima vittima (1965) di Elio Petri, con Mastroianni e Ursula Andress che paiono usciti da una presa in giro di James Bond (alla De Funès, per intenderci) piuttosto che dalla fantascienza di Robert Sheckley.
E che dire di Totò nella Luna (1959)? Il futuro pareva alle porte, galvanizzato dagli effetti ancora attivi del boom economico. La parodia nasce forse prima della fantascienza stessa: è parodia dei costumi e dei mass media legati all’enfasi tecnofila “all’americana”. Il cinema italiano, come la Luna, è il satellite del pianeta-“cinema ufficiale”. Totò mette alla berlina più che altro il mito della Luna e i giornali zeppi di resoconti spaziali. Alla fine non può che capitarci, sulla Luna, insieme a un ultracorpo di Ugo Tognazzi, in una sequenza celeberrima che satireggia L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel. Al posto dei famosi baccelli alieni, ecco i “fagioloni” umani, sostituti folkloristici dei più spaventosi visitatori extraterrestri. Le “copie” umane – qui i “cosoni” –servono a innescare i più tipici codici del doppio comico e farsesco.
Per trovare fantascienza seria, oltre che a Bava, bisogna indirizzarsi ad Antonio Margheriti, omaggiato di una retrospettiva a se stante dentro alla sezione fs italiana del Science Plus Fiction. Nel 1960, vale la pena ricordarlo, furono infatti i produttori Turi Vasile e Goffredo Lombardo per la Titanus (e non oscure società da un film e via) a far sì che Anthony Dawson, pseudonimo quasi letterale, esordisse con Space Men, e poi ancora a dare il via libera l’anno successivo a Il pianeta degli uomini spenti. Il primo, scritto da Ennio De Concini, narra la storia di una minaccia alla Terra, un’astronave in rotta di collisione col nostro pianeta, salvato grazie alla sagacia di un giornalista. Il secondo, ampliando le ambizioni filosofiche, immagina che a mettere in pericolo la Terra sia un altro pianeta guidato da una sofisticata intelligenza aliena, che affascina lo scienziato pazzo Claude Rains. Su Margheriti, e su questi due film in particolare, grava (è il termine giusto, perché si tratta do un’ipotesi storiograficamente impegnativa) la leggenda che avrebbero probabilmente influenzato 2001 – Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, per ciò che riguarda la rappresentazione dell’intelligenza artificiale e l’idea di utilizzare il genere fs allo scopo di trasmettere riflessioni magniloquenti sull’uomo contemporaneo. A parte ciò, si tratta senza dubbio dei più riusciti esperimenti del periodo, anche se poi Margheriti ha come noto sfornato altre quattro pellicole fantascientifiche, ambientate tutte nella base spaziale Gamma Uno. I titoli – definiti giustamente da Mongini e Terzoli “roboanti e ipnotici” – sono I criminali della galassia, I Diafanoidi vengono da Marte, Il pianeta errante e La morte viene dal pianeta Aytin, usciti tra 1965 e 1966, perfetti esempi di fs a basso costo, pieni di interni e di sequenze in scala ridotta, prodotto di quell’artigianato che la cultura cinefila ha oggi pienamente rivalutato.
Non va dimenticato, tuttavia, che la breve stagione della fantascienza italiana non nasce certo per caso. Vi sono, come detto, i riverberi del fascino esercitato dalla corsa allo spazio che vede contrapposti occidente e blocco sovietico. C’è il fumetto che si trova in condizione di grande vivacità. C’è un pulviscolo di discorsi sociali, che transitano attraverso diversi media, che alimentano questo tipo di immaginario. Di tale scenario, che non potremmo definire altro se non fortemente intermediale, si avvantaggia il genere fantascientifico. Lo dimostra un film importante come …4…3…2…1…Morte! (1967) di Primo Zeglio, coproduzione internazionale centrata su un eroe stellare, Perry Rhodan, presente in libri, fumetti e serie illustrate in Germania. Emerge, con tutta evidenza, il tentativo – sia pure industrialmente ingenuo – di costruire alternative europee allo spettacolo tecnologico americano. Quest’ultimo, peraltro, non ha in quel momento (i primi sei, sette anni del decennio Sessanta) nella fantascienza un genere cardine, ma tra James Bond e fantapolitica sembra continuare a esercitare un’autorità di immaginario quale ha sempre avuto, anche nei periodi successivi – e il caso, produttivamente robusto ma dagli esiti deludenti, di Nirvana (1997) di Gabriele Salvatores, è lì a ricordarcelo.