SPECIALE ORIENTE A HOLLYWOOD
Come fumo di sigaretta
Fu mia zia che verso i sette anni mi propose la trilogia di Guerre Stellari – i tempi, diceva, erano maturi – inaugurando così una serie di consigli cinematografici che la resero ai miei occhi una persona libera e speciale. Quando di anni ne avevo ormai quattordici, mi allungò un già datato VHS di Smoke e disse: tu guarda, poi ne parliamo.
Vidi il film di Wayne Wang – il suo più bello anche dopo vent’anni – senza riconoscere il nome di Paul Auster alla sceneggiatura, non comprendendo appieno il talento di Harvey Keitel e William Hurt, mostri sacri mai pacificati col sistema, sapendo a malapena chi fosse Forest Whitaker. Smoke mi entrò sottopelle con tutto il suo carico di coraggiosa malinconia, e ancora oggi mi pare un film che tenta di rispondere a un’urgenza autentica, tutt’altro che superata: molte cose sono cambiate, a New York e nel mondo, ma il progressivo scarto che la comunicazione e i rapporti hanno subito non ha risolto la costante necessità di entrare in contatto col prossimo, di guarire le nostre ferite attraverso l’esperienza diretta degli altri. La natura frammentaria del film – non una storia, ma tante piccole vicende che si incrociano nella poetica tabaccheria di Auggie a Brooklyn – si declinava tra solitudine, introspezione e sigarette, in un crescendo di silenzi intimi che, a ben vedere, sono scomparsi da molto cinema contemporaneo, specialmente metropolitano. In questo senso Smoke, che è un film ancorato senza remore agli anni Novanta, è anche il canto del cigno di un mondo in procinto di trasformarsi definitivamente, la testimonianza di un’umanità certo un po’ eccentrica ma ancora disponibile ad attraversare il proprio dolore, senza alibi, omissioni o mascheramenti virtuali: quando il conflitto diventa insopportabile, si aprono le birre, si accendono le sigarette, ci si guarda in silenzio senza il dovere di una giustificazione. Di quel film ormai lontano – di cui esiste un clamoroso e divertito b-side, Blue in the Face – non mi colpì soltanto il finale, dove prendeva piede il racconto originario di Auster, ma il dettaglio in secondo piano delle fotografie di Auggie, che ogni giorno alla stessa ora piazza la propria macchina di fronte all’incrocio fuori dalla tabaccheria, presso Park Slope. L’album degli scatti di Auggie mi pareva l’immagine più bella del film, la più triste ed efficace nel catturare la vita che continua a scorrere, simile a fumo di sigaretta, mentre cerchiamo di dare ordine ai nostri casini. Ne parlai anche con mia zia, che si disse d’accordo. Me ne ricordai durante il nostro ultimo incontro, in ospedale, quando la malattia la spegneva ma lo sguardo era ancora vigile, presente. Restammo così in silenzio una buona mezz’ora, sorridendoci di tanto in tanto, senza il dovere di alcuna giustificazione.
Smoke [id., USA/Germania 1995] REGIA Wayne Wang.
CAST Harvey Keitel, William Hurt, Harold Perrineau, Forest Whitaker, Stockard Channing, Ashley Judd.
SCENEGGIATURA Paul Auster. FOTOGRAFIA Adam Holender. MUSICHE Rachel Portman.
Drammatico, durata 112 minuti.