I maghi non esistono
L’intuizione con cui Joanne Rowling diede vita 14 anni fa al microcosmo fantasy di Harry Potter è geniale: scrittrice senza successo, la Rowling – leggenda vuole – concepì il mondo del maghetto camminando per la stazione londinese di King’s Cross. Geniale.
Geniale perché dalla sua penna è nata una saga “generazionale”, destinata cioè a crescere man mano che procedevano gli episodi (dagli 11 anni età ideale per la lettura della Pietra filosofale ai 18 per quella dei Doni della Morte); geniale perché in grado di accendere la scintilla di chi, leggendo pagine su pagine di asettica carta stampata, si è creato un proprio personale immaginario, da alimentare gelosamente. Ecco la parola – vale la pena di dirlo – “magica”: immaginazione. Uno dei motivi principali del fallimento dell’adattamento filmico dei romanzi potteriani è la privazione del libero arbitrio, ossia la necessità di ricondurre a dei connotati unici e condivisi un universo fantastico destinato a prender vita solo nella testa dei suoi aficionados. “Esistono storie che non esistono” direbbe Maccio Capatonda in uno dei suoi nonsensici trailer ideati per Mai Dire Tv, e l’innesto di Harry Potter al cinema è una di quelle storie. Anche perché, sceneggiando vicende fatte apposta per restare prive di risoluzione nell’attesa delle nuove puntate, viene meno il principio auto-conclusivo dell’opera d’arte. Ovvero: guardereste la giovinetta dell’Olympia di Manet mozzata in due, busto in un quadro e gambe in un altro? Che senso avrebbe? E che senso hanno i film intermedi di Harry Potter, che iniziano in un punto qualsiasi e finiscono altrettanto all’improvviso lasciando tutto in sospeso? Nessuno, se non per i fan – comunque scontenti, per il “tradimento dell’immaginario” di cui sopra – accaniti. La trasposizione cinematografica dei romanzi – a causa dei continui cambi di regia: da Columbus all’anonimo Yates, passando per Cuàron e Newell – non ha mai avuto un’anima, e men che meno ce l’ha in questo ottavo lungometraggio, incentrato sulla ricerca degli Horcrux. L’estetica combattiva e pesantemente manomessa dal CGI (una curiosa alternanza di effetti speciali da urlo e clamorose topiche degne di un videogame di serie Z) è a tal guisa carica e tonitruante da rendere sgonfio e sfiatato lo scontro finale tra Harry e l’arci-nemico Voldemort, già di per sé castrato dall’ovvietà del suo esito. La lotta tra Bene e Male, così come la resistenza di un gruppo di ribelli che deve salvare il mondo, non è mai stata così telefonata e priva di intensità. Ora il sipario cala, e quando qualcuno tra qualche anno si domanderà “who the f**k is Harry Potter?” (come recitava – piccolo aneddoto personale – una t-shirt acquistata dal sottoscritto a Londra un lustro fa) la risposta sarà doppia: da un lato, un memorabile personaggio nato dall’epifania di un’autrice sconosciuta di romanzi fantasy; e dall’altro, una accessoria saga cinematografica che – semplicemente – non s’aveva da fare.
Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2 [Harry Potter and the Deathly Hallows – Part 2, USA/Gran Bretagna 2011] REGIA David Yates.
CAST Daniel Radcliffe, Emma Watson, Ralph Fiennes, Alan Rickman, Helena Bonham Carter.
SCENEGGIATURA Steve Kloves (dal romanzo di J. K. Rowling). FOTOGRAFIA Eduardo Serra. MUSICHE Alexandre Desplat.
Fantasy, durata 130 minuti.