Il logos si è fatto carne ed abita tra noi
Quante volte avremmo voluto dare un nuovo significato alle parole? Quante volte avremmo voluto rinchiuderci nella nostra stanza, lasciando all’esterno il Mondo, in quarantena? Quante volte avremmo voluto dire “kill isn’t kill”?
Il significato segreto delle parole; e se invece tutto stesse nel dar loro nuovo valore per non rimanerne infetti? Tali e molte altre sono le domande che formano il fulcro narrativo e filosofico di Pontypool, presentato al Festival di Torino. Protagonista di questo splendido horror canadese è l’incredibile, ma sottovalutato, Stephen McHattie/Grant Mazzy, speaker radiofonico che, durante una delle sue tante trasmissioni, dà in diretta la notizia di terribili atti di violenza nella cittadina e nei paesi limitrofi. Non ci sono motivazioni politiche alle rivolte, c’è solo una spiegazione: “language is a virus”. Questo stordisce, avviluppa e sconquassa dal di dentro, è una questione di comprensione/non comprensione, di sibili, sussurri e sguardi che gridano e fuggono sospettosi. È incredibile come questa pellicola terrorizzi e turbi pur stando rinchiusi all’interno di uno studio radiofonico: vediamo il mondo esterno solo nell’incipit del film, la tormenta di neve, e durante l’elenco dei morti, con un inquietante susseguirsi di foto in bianco e nero. Il terrore, lo strazio per ciò che accade a cinque chilometri di distanza, li percepiamo dalle parole di Grant, dagli occhi suoi, spaventati e turbati quanto quelli di Laurel Ann e Sydney, che lavorano con lui. Quelle quattro mura diventano l’unica certezza, l’unico elemento che non tradisce e non cambia, in cui i tre personaggi trovano rifugio e riparo, in cui vagano come delle formiche impazzite alla ricerca di notizie sicure. Cosa succede nelle strade buie, silenziose, fredde e innevate? L’inviato Ken Loney sussurra racconti fatti di cannibalismo, struggenti visioni di figli che chiamano “Mamma” prima di esalare l’ultimo respiro, orrorifiche parole biascicate e trascinate, senza senso, o che di senso ne hanno solo uno: generare paura. Tutto sta nelle parole, in quell’universo tanto affascinante quanto terrorizzante, tanto misterioso quanto conosciuto, è lì, insito in quelle lettere che creano un concetto. Le parole sono importanti, qui troppo forse, tanto da infettare, tanto da portare alla morte. Se i latini ci hanno insegnato che “Nomen omen” e Shakespeare attraverso Giulietta che “quella che noi chiamiamo rosa avrebbe, anche con un altro nome, il suo soave profumo”, McDonald invece ci dice che non solo il destino non è insito nel nome ma basta modificarne il significante e ci autoconvinciamo della nuova natura: la rosa perde il suo profumo; rosa è gatto, rosa è biblioteca. Le parole ripetute in loop sono terrificanti: il silenzio, il mormorio, il Respiro dopo l’apnea, mettono addosso un’angoscia senza pari, un senso di claustrofobia insostenibile. Bisogna fare silenzio, il nemico è pronto a cibarsi del nostro respiro, a fagocitare le nostre parole. Pontypool è un film coinvolgente e intelligente fin dalla sceneggiatura. Grant con la sua voce roca, calda e suadente ci stordisce di parole, ci insegna a non comprenderle per “venirne a contatto” da neofiti. Quante volte siamo affamati di parole, camminiamo alla loro ricerca, veniamo infettati dalla loro durezza. È proprio vero, sarebbe meglio non capire, è proprio vero che le parole sono meravigliosamente dannose, è proprio vero – per non morirne infetti – che “kill is kiss”.
Pontypool – Zitto… o muori [Pontypool, Canada 2008] REGIA Bruce McDonald.
CAST Stephen McHattie, Lisa Houle, Georgina Reilly, Hrant Alianak.
SCENEGGIATURA Tony Burgess (tratta dal romanzo Pontypool Changes Everything). FOTOGRAFIA Miroslaw Baszak. MUSICHE Claude Foisy.
Horror, durata 93 minuti.