66° Festival del film Locarno, 7 – 17 agosto 2013, Locarno
Se il festival ticinese si propone di dare uno sguardo di 360 gradi sul cinema del presente cercando di anticipare il cinema del futuro, le proiezioni serali nell’enorme e affascinante cinema all’aperto della centrale Piazza Grande sono quelle che cercano l’equilibrio tra attrattiva per il grande pubblico e originalità, tra “classicità” e innovazione.
Con anteprime di richiamo e prodotti di cinematografie più di nicchia, con film più convenzionalmente di genere ed opere più stranianti (senza dimenticare la riproposizione di classici legati alle retrospettive in corso: quest’anno Ricche e famose di Cukor e Fitzcarraldo di Herzog), è inseguito il giusto dosaggio tra “commerciale” e qualità. Pur non risultando mai indigesto, certe sere questo dosaggio è riuscito più gustoso di altre, e ha regalato sia gioielli sia film gradevoli ma facilmente dimenticabili. Irrestibile è il surreale Wrong Corps di Quentin Dupieux, trionfo del politicamente scorretto e sferzante attacco al diffuso perbenismo d’accatto. Il surrealismo e la cattiveria del regista francese esplicitano il loro senso nel discorso finale recitato, durante uno straniante funerale, dal poliziotto protagonista, che ricorda come l’inferno sia in realtà la terra. Commedia decisamente più convenzionale, ma non per questo innocua, è We’re the Millers di Marshall Thurber; dallo svolgimento e dalla comicità (pur con qualche gag notevole) abbastanza prevedibili, riesce comunque a lanciare più di una freccia nel cuore dell’istituzione familiare. Una comicità diversa, all’insegna di un’ironia più sottile e stravagante, è il notevole Les Grandes Ondes dello svizzero Lionel Baier, che riporta una vicenda realmente accaduta ad una troupe della televisione svizzera durante la Rivoluzione dei garofani nel 1974. Non solo commedie: sotto le stelle della Piazza si sono visti anche due noir d’atmosfera: La variabile umana di Bruno Oliviero e The Keeper of Lost Causes del danese Mikkel Norgard, entrambi riusciti solo in parte: pur con ottimi momenti e, appunto, atmosfere efficaci, i due film – in particolare il danese – peccano a livello di struttura, non riuscendo a tenere costante la tensione. L’experience Blocher di Jean-Stephan Bron è invece un documentario incentrato sulla figura di Cristoph Blocher, odiato e amato politico elvetico (sorta di Berlusconi/Bossi svizzero, per intenderci). Il regista, opposto ideologicamente, evita il manicheo pamphlet polemico, preferendo indagare l’interiorità e i segreti: ne esce così una raffigurazione forte in cui i bianchi e i neri si mischiano e si contraddicono arrivando così vicino alla vera e variegata essenza di un uomo di potere, amato e odiato. Infine, Gloria del cileno Sebastian Lelio: con le armi della commedia amara, e con una consapevolezza del mezzo che permette di realizzare più di una scena madre di grande pudore, Lelio regala il ritratto potente e sensibile di una donna di mezz’età in lotta contro la solitudine e alla ricerca della felicità, sostenuto dalla strepitosa protagonista Paulina Garcia.