Reduci da una delle più entusiasmanti edizioni del festival bolognese Il Cinema Ritrovato, sfogliando un librone curato da Alex Marlow-Mann sugli archival film festival (quelli, appunto, dove si vedono solo vecchi film e nessun nuovo inedito), e in attesa di gustarsi nel vuoto della tv estiva il cinema classico (un sacco di Cukor e Lubtisch su RaiMovie, per esempio), vale la pena fare una riflessione.
La cultura del rétro e dell’heritage sembra sempre più forte. Gli appuntamenti dedicati al cinema del passato rischiano di fiaccare la voglia di contemporaneo. Persino una sezione solitamente defilata come Venezia Classici, quest’anno scatena una potenza di fuoco sorprendente, visto che sono stati annunciati, tra gli altri, rarità come Le 15 d’Août di Chantal Akerman (1973), Little Fugitive di Ray Ashley, Morris Engel, Ruth Orkin (1953), il mitico Sorcerer (Il salario della paura, 1977) di Friedkin – Leone d’Oro alla carriera – e poi ancora La bête humaine di Renoir, Providence di Resnais, White Rock di Tony Maylam, Il mio amico Ivan Lapshin di Aleksey Guerman Sr, Mahapurush (The Holy Man) di Satyajit Ray, Yangguang canlan de rizi (In the Heat of the Sun) di Jiang Wen, Fiori d’equinozio di Ozu, Yoru no henrin (The Shape of Night) di Noboru Nakamura e altre decine di cose. Un festival nel festival, che per molti appare assai più eccitante del resto del cartellone. Ora, a fare questi discorsi si può apparire retrogradi, nostalgici o conservatori. Ma non è così. Le modalità di circolazione del cinema del passato, dal classico al world cinema, dal muto al moderno, sono talmente proliferate e entusiasmanti che stanno creando un vero e proprio segmento culturale e di consumo. Non solo il mercato del DVD di pregio e del DVD “film history” funziona bene – a patto di fare buoni prodotti (vedi le edizioni Criterion, Flicker Alley, Raro Video, ecc.) – ma anche i festival stanno sempre più attrezzandosi in tal senso. La storia del cinema, ovviamente, non è un catalogo infinito, ma il gioco sta negli accostamenti, nella cinefilia bulimica e nell’arte curatoriale della programmazione. Niente male, per un’arte che sta(va) morendo.