E’ vero, queste piattaforme esistono da tempo. Alcune sono anche meno impositive, e meno antipatiche. Però non si può negare che l’arrivo in Italia di Spotify cambi le carte in tavola. Dopo qualche settimana di prova, possiamo dire che la discontinuità c’è tutta: poter navigare dentro un oceano di canzoni e album, organizzato secondo una logica spietatamente commerciale ma al tempo stesso rispettoso di alcune nicchie, ascoltare dischi nuovi di zecca attraverso un’interfaccia semplice e partecipativa, e il tutto – se si accettano limiti di tempo e molta pubblicità – gratis, è una cosa nuova.
Si dirà: Youtube aveva ormai da tempo inglobato la musica, e tuttora lì si trova molto più materiale. È vero, ma l’indicizzazione e l’organizzazione semantica del “tubo” sono frantumate e caotiche, mentre queste piattaforme, proprio perché benedette dall’industria, offrono per la prima volta la musica (tanta musica) senza supporti e a costi irrisori.
Ovviamente, la lampadina si è accesa nella testa di molti: e il cinema? Avrebbe senso uno Spotify dei film? Difficile a dirsi. Di primo acchito, bisogna dire che ogni mezzo espressivo necessita di un’organizzazione ad hoc, e proprio Spotify dimostra che canali distributivi universali (come appunto Youtube) possono essere spodestati da servizi commerciali esclusivi. Quindi il modello potrebbe sussistere ma non essere tale e quale. Tuttavia, si sta andando in quella direzione, e oltre oceano le cose sono già a stadio assai avanzato. Gran parte della sfida si gioca sul repertorio, ormai. Per il cinema, come per la musica, la “retromania” di cui parla Simon Reynolds nel suo bel libro omonimo è ormai un fatto. Dunque una piattaforma legale, semi gratuita, o ad abbonamento stracciato, che contenga milioni di film, e usi gli strumenti dei social network, è immaginabile anche in Europa. Questo – come per Spotify – dovrebbe poi generare una dimensione di concorrenza e spingere altre aggregazioni a proporre piattaforme alternative, dedicate al cinema indipendente o alle opere inedite da tutto il mondo. Al momento è tutto molto frantumato, e – pur facendo finta di abitare in Usa – abbonarsi contemporaneamente a MUBI, Festival Scope, Sundance Channel e Hulu costa un bel po’ di quattrini. In Italia, poi, il livello dell’On Demand è ancora ridottissimo.
Poi c’è il problema della sala. Per la musica non esiste, ed è il motivo per cui l’industria musicale non poteva reggere l’urto dei nuovi media: si trattava solamente di supporti. Per il cinema la sala non è questione tecnica, ma sociale e rituale, paragonabile al “live” della musica (e non sarà un caso che le sale di prima visione propongono sempre più live, balletti, opere liriche, concerti rock e pop). Questa dimensione, pur in crisi, regge. È anzi stupefacente come resista alle spinte della contemporaneità. E i dati provenienti da mezza Europa, da Cina, Russia, Brasile e Usa ci dicono anzi di una crescita.
Uno Spotify del cinema legalizzato potrebbe dunque occuparsi del repertorio, rendendolo finalmente fruibile e reperibile in larga parte, proteggendo in qualche modo la prima visione (ma con windows molto più strette) e generare – a fronte di un iniziale contrazione del consumo verso i grandi operatori – un successivo terreno fertile per futuri spettatori. Succederà davvero?