Uno dei temi affrontati al convegno sulla “Critica della critica”, tenutosi presso l’Università degli Studi di Bologna il 31 gennaio e 1 febbraio scorsi, è stata l’analisi rivolta all’atteggiamento paternalistico del nuovo femminismo mainstream, dedito a mettere sotto esame l’uso strumentale dell’anatomia femminile nel piccolo schermo.
Ilaria De Pascalis, docente dell’Università di Roma Tre, ha focalizzato principalmente il suo intervento su Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, documentario che ha dato il via al dibattito sul ruolo decorativo della donna televisiva (definita “grechina”) e, trasversalmente, sull’immagine diffusa in ambito pubblicitario, generando con effetto domino la nascita di più movimenti di protesta. Anche se maggiormente legato alla cronaca politica, che in Italia però sappiamo essere ramificazione di uno stesso problema culturale, Se non ora, quando? è stato uno di questi. La risposta che mi sentirei di dare, potrebbe essere ad esempio negli anni ’80, quando andava in onda Colpo grosso. Si perché, un problema che credo vada aggiunto a quelli declinati dalla De Pascalis, tra cui l’ancoraggio a vecchi schemi fondati sull’odio nei confronti del maschio e l’invidia del pene (Movimento Paestum), una lotta mai estesa universalmente a tutte le donne, ma sempre prerogativa di un preciso schieramento politico (tant’è che nel 2013 ci ritroviamo ancora, come spottone elettorale, quote rosa e liste compilate non su questioni di merito, bensì di genere), è il fatto che l’indignazione sia emersa con troppo ritardo. E che la presa di coscienza si sia manifestata al termine del processo di imbarbarimento, quando critica rabbiosa e ricerca del consenso attraverso la pancia degli italiani erano già diventati sport nazionale. Al contrario però, tacciare il dissenso di moralismo glissa sul nodo cruciale e ne sottovaluta la portata. Innanzitutto, più che un discorso legato ai cyber corpi frutto della chirurgia estetica e al concetto di verità/finzione (la Zanardo non si scaglia contro le veline, ma le ritiene vittime), la De Pascalis non considera che ci troviamo di fronte all’imposizione di un unico modello di rappresentazione estetica, che non ammette alternative, e che è socialmente riconosciuto perché perfetto. E che a tale modello intellettualmente castrato sia contrapposta, in maniera dicotomica, la figura della donna impegnata, sgradevole alla vista ma non all’udito. L’aspetto grave, che va ben al di là della morale su una coscia scoperta, è poi il fatto che questa stereotipizzazione non investa soltanto i programmi di intrattenimento come affermato dalla De Pascalis, ma sia spalmato in ogni contenitore (vedasi il rispettabilissimo Che tempo che fa? e la distinzione dei ruoli tra valletta muta straniera e Littizzetto grillo parlante), presentando seri interrogativi di sguardo (ben al di là quindi dell’inquadratura ginecologica dei varietà e dei quiz show), che non si può negare pongano quello maschile in una posizione assolutamente dominante.