Ossessione
Zero Dark Thirty si apre e si chiude con un fuori campo: inizia con il buco nero dell’11 settembre, le cui immagini vengono celate dallo schermo completamente nero, sopra cui scorrono le voci di chi quel giorno era intrappolato nelle torri o stava osservando dalla strada, e finisce con la cattura di Bin Laden, mai chiaramente inquadrato.
Il leader della Jihad infatti, oltre a non apparire neanche un attimo da vivo se non come una quasi impercettibile ombra sfuggente, è sempre o nascosto dal corpo di un soldato posto nella traiettoria della macchina da presa, o ripreso parzialmente con particolari che sbucano nel quadro, o attraverso inquadrature distanti, un po’ sghembe e oblique che evitano comunque sempre di riprendere con chiarezza l’intero volto. L’unica eccezione in cui questo si vede è attraverso una foto fatta dal cellulare di un soldato, che riporta l’immagine ufficiale circolata dopo la cattura, quella che è apparsa nei media di tutto il mondo.
La scelta di non immolare visivamente Bin Laden (oltre, volendo essere maligni, a lasciare qualche dubbio sul fatto che la regista e gli sceneggiatori credano totalmente alla versione ufficiale) è significativa non solo perché frutto della poetica della Bigelow, più interessata a colpire “alla lunga” con una rappresentazione quasi documentaristica e antropologica piuttosto che con l’impatto emotivo d’effetto, ma soprattutto perché è segno di un rimosso che ancora fatica a essere interiorizzato. La paura di rappresentare chiaramente il nemico, di guardarlo in faccia è, da un lato, segno di un lutto e di uno shock non ancora del tutto superati, specie se affiancato al fuori campo iniziale dell’11 settembre; dall’altro è frutto del pudore (a livello “emotivo”, non certo narrativo e di fedeltà storica, dove anzi con grande sincerità si rappresentano anche le pagine più sgradevoli) e della sofferenza con cui sono raccontate le vicende che hanno portato alla cattura. L’uccisione di Bin Laden è infatti risultato di una lunga e sempre più divorante ossessione, quella della protagonista Maya – un’aderente Jessica Chastain, la cui recitazione controllata ma comunque incisiva è parallela allo stile della Bigelow – facilmente metaforizzabile con quella dell’intera nazione; ossessione che ha costretto la protagonista a scendere a patti con se stessa, con la propria autorappresentazione e con la propria identità, e che in fin dei conti l’ha portata a perdersi, sempre in un discorso facilmente metaforizzabile a livello più ampio di nazione. Catturato e ucciso quello che per anni è stato per lei un chiodo fisso sempre più totalizzante, Maya non può/riesce a festeggiare, non ce la fa a liberarsi dal peso che negli ultimi anni l’ha, come un cancro, sempre più conquistata. L’inquadratura finale – che Mauro Gervasini su filmtv ha acutamente accostato come speculare a quella di Sentieri Selvaggi, non a caso un film capitale dell’autorappresentazione sofferta statunitense – lascia intendere che la perdita di sé può essere irreversibile, e che ritrovarsi sarà dura.
Zero Dark Thirty [Id., USA 2012] REGIA Kathryn Bigelow.
CAST Jessica Chastain, Jason Clarke, Kyle Chandler, Mark Strong.
SCENEGGIATURA Mark Boal. FOTOGRAFIA Greig Fraser. MUSICHE Alexandre Desplat.
Thriller/Storico, durata 157 minuti.