L’inseguimento come alienazione
Di come la guerra sia un’esperienza alienante si discorre ormai dalla Prima Guerra Mondiale. Chilometri di pellicola sono stati girati a riguardo: uno degli ultimi esempi ci viene proprio dalla stessa regista di Zero Dark Thirty con
The Hurt Locker.
Se nel film del 2009 la guerra era quella dei soldati di prima linea, nell’ultima creazione le azioni sono sempre architettate a tavolino, mescolando istinto e speculazioni militaresche. Se nel 2009 l’identità di alcuni (e tramite essi di tutti i soldati) era vista nell’intimità della loro retorica, nel 2013 si sceglie di mostrare l’opposto: la perdita di identità e insieme un riconoscimento di umanità che unisce tutti, buoni e cattivi. Che si tratti di stare in un campo di battaglia o di stare davanti a degli schermi, dopo dieci anni passati a inseguire il nemico pubblico numero uno (che somiglia sempre più ad un fantasma) le identità iniziano a dissolversi. Perdere il proprio volto in quello della preda diventa una soluzione naturale per Maya, che trova così una riappacificazione con se stessa e la possibilità di scendere a patti con la violenza a cui ha preso parte. La vita di Maya si può leggere solo in funzione di Osama Bin Laden. L’inseguitore si definisce in termini di lontananza rispetto all’inseguito. Così, al momento finale della propria missione Maya si specchia nel volto del terrorista, come Locke faceva con Robertson in Professione: reporter; perde il proprio ruolo nel momento dell’incontro con il suo obiettivo, già cadavere di un pretesto la cui identità è ancora messa in dubbio. Esiste davvero Bin Laden? È davvero stato ucciso? Con il confronto con Bin Laden, Maya giunge alla fine di un’era fatta di torture e sofferenze e se ne apre un’altra caratterizzata da promozioni ed elogi. Ma con la fine di un periodo fortemente connotato, seppure negativamente, arriva anche l’incertezza del possibile, dovuta alla perdita di una parte di sé. Il pianto finale arriva come sollievo, sigillo di un capitolo doloroso della sua esistenza. Ma anche per il suo spaesamento in un ambiente ormai vuoto (e svuotato di senso), in cui non sa più che posto occupare. Significativo in tal senso è anche il cromatismo, in netta contrapposizione a quello di The Hurt Locker: si passa dal color sabbia che copre tutto a colori accesi, freddi e metallici. Alla fine anch’essi vengono negati e Maya si trova in solitudine a fare i conti con se stessa, stagliata contro uno sfondo rosso.
Zero Dark Thirty [Id., USA 2012] di Kathryn Bigelow.
CAST Jessica Chastain, Jason Clarke, Kyle Chandler, Mark Strong.
SCENEGGIATURA Mark Boal. FOTOGRAFIA Greig Fraser. MUSICHE Alexandre Desplat.
Thriller/Storico, durata 157 minuti.