13° Sottodiciotto Film Festival, 6-15 dicembre 2012, Torino
Il regista francese Michel Ocelot, celebre soprattutto per il piccolo cult Kirikù e la strega Karabà, è tra gli autori più apprezzati nel mondo dell’animazione, dove il suo cinema è diffusamente amato per le sue doti di ‘poesia’ e di ‘magia’, oltre che per il tratto lieve capace di giocare con le arti figurative più tipiche delle culture rappresentate o dei periodi storici in cui si svolgono le sue opere.
Celebre soprattutto da una quindicina d’anni (Kirikù è del 1998), Ocelot è attivo dalla seconda metà degli anni Settanta, come autore di cortometraggi. Una selezione di questi ultimi è stata presentata al Sottodiciotto Film Festival in quel di Torino, manifestazione di cui l’autore francese è ospite ricorrente, di persona o con le sue opere: selezione che va dagli esordi fino agli anni Novanta, comprendendo anche il videoclip della canzone di Björk Earth Intruders (2007). Les trois inventeurs, del 1979, è la sua seconda opera, la prima veramente personale, premiata anche ai BAFTA, gli Oscar britannici. Nella Francia di antico regime, una famiglia di inventori, padre, madre e figlioletta, si trasferiscono in una piccola comunità: le loro creazioni, invece di stupire e meravigliare, spaventano, attirano invidie e meschinità, accendono la paura del nuovo e scatenano il peggior conformismo sociale e culturale; questo, fino ad un epilogo malinconico e tragico, moderato dall’attimo finale in cui compare un uomo dietro la macchina da presa che “tranquillizza” il pubblico più giovane dicendo che è solo un film. Su uno sfondo completamente blu, i personaggi, gli ambienti e le invenzioni sono realizzate o con figure ritagliate nella carta o con piccoli centrini ricamati; quest’ultima tecnica è stata usata particolarmente per gli oggetti inventati e gli interni della casa dei tre, ricchi di fantasiosi decori e di complessi svolazzi, tesi a sottolineare la creatività della famiglia rispetto al conformismo circostante, reso attraverso forme geometriche tradizionali. Di pochi anni successivo è La Légende du pauvre bossu (1982), che invece si ispira alla narrativa e all’iconografia medievale, con riferimenti che vanno dalla percezione visiva più diffusa di quell’età, fino agli arazzi, dall’horror vacui di sculture ed incisioni fino ai volti dell’arte fiamminga. Un giullare gobbo vuole offrire la sua mano ad una principessa -la quale, colpita dalla sua semplicità, ricambierebbe pure-, ma viene umiliato, maltrattato e percosso dagli altri pretendenti nobili, sotto le risate di scherno degli astanti. Colpito alla gobba, si scopre che la malformazione nascondeva in realtà un importante segreto, e che il giullare era ben più che un essere umano. Così, riesce a fuggire con l’amata. In questo caso, il lieto fine ha comunque un sottofondo malinconico, dato che è stata necessaria un’incursione del fantastico e una fuga dalla realtà, che potrebbe tranquillamente essere una metafora della morte, per sfuggire dagli obblighi, dalla chiusura mentale e dal conformismo del reale. I due cortometraggi in questione sono due piccoli gioielli, all’apparenza semplici nel tratto e in realtà ricchi di riferimenti e spunti, amare e allo stesso tempo poetiche constatazioni della difficoltà di cittadinanza della fantasia, dell’anticonformismo e della cultura. Naturalmente, sono opere per bambini tanto quanto per adulti.