Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica, Gorizia, 19-28 luglio 2012
Alla ricerca della verità perduta
Nell’Italia della disinformazione di Stato, a volte il cinema opera un ruolo più importante di quello che da sempre gli viene attribuito dal pubblico e dalla critica.
È successo negli anni con Umberto D di De Sica che generò l’ormai celebre frase dell’allora ministro Andreotti “i panni sporchi si lavano in famiglia”, con Gomorra nel 2008 che suscitò talmente tanto disprezzo da parte dell’establishment politico che Berlusconi osò addirittura affermare che, senza un certo cinema ed una certa letteratura, la mafia italiana non sarebbe stata così tanto famosa.
Con il primo ormai sublimato in ectoplasma e il secondo relegato alle seste pagine dei giornali, nel 2012 è toccato all’informazione “ufficiale” prendersi in carico il peso culturale e sociale di due film usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: Diaz – Don’t clean up this blood di Daniele Vicari e Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.
Da qui, cioè dalle modalità con cui in questi due casi l’informazione ha recepito e rielaborato il linguaggio cinematografico, si è aperta la tavola rotonda svoltasi giovedì mattina a Gorizia all’interno del 31° Premio Sergio Amidei con protagonisti Emanuele Scaringi, uno dei quattro sceneggiatori di Diaz e tre giornalisti “interessati” come Roberto Kovac, Igor Devetak e Maurizio Bekar.
Si è capito fin dalla prima domanda di Kovac che il problema fondamentale avrebbe riguardato la divisione degli ambiti di indagine dei due medium: “che tipo di film è? Un film-inchiesta, un film-documentario, un film militante?”. Un quesito tanto ampio quanto semplice da dirimere visto che lo stesso Scaringi lo risolve con tre semplici parole (“è un film”), mentre Devetak ne descrive gli intenti, al di là delle etichette di genere, con la formula mista di “cronaca dell’orrore”.
Qualcuno si ricorderà dei tanti articoli usciti nei giorni vicini all’uscita nelle sale del film e delle altrettante mancanze che ciascun giornalista aveva scovato nell’opera, come quella di aver taciuto i nomi delle vittime e dei carnefici (Vittorio Agnoletto su Il Manifesto).
L’editoria giornalistica non specializzata che chiede al cinema di farsi cronaca, prescindendo dalla legittimità artistica di una scelta, e giudicando un film alla luce di una presunta “mancanza di verità” è un limite che credevamo invalicabile. Chi, come Ezio Mauro e Adriano Sofri hanno attaccato Romanzo di una strage perché storicamente falso o chi ha visto in Diaz solamente il vaso di Pandora della rabbia giovanile nei confronti di uno Stato anti-democratico, probabilmente pensa che “ognuno debba fare il suo lavoro”, e che ogni medium debba operare esclusivamente all’interno del suo hortus conclusus.
Un pensiero giustissimo che però tradisce il suo intento. Cinema e informazione devono sì operare ognuno attraverso i codici che gli sono propri, ma senza mai negare all’altro dignità e autorevolezza. Con Diaz e Romanzo di una strage questo patto è stato momentaneamente sospeso.