Premio Internazionale alla Migliore Sceneggiatura Cinematografica, Gorizia, 19-28 luglio 2012
Il fascino arcaico dell’India
Quando realizza Il lamento sul sentiero, Satyajit Ray ha da poco superato i trent’anni. E non avrebbe certo immaginato che la sua opera prima sarebbe diventata un pietra miliare del cinema mondiale, nonché spartiacque per la cinematografia indiana, che il regista – divenutone di lì a poco il più importante esponente – sdogana dal circuito locale, portando all’attenzione internazionale la realtà della sua Nazione, fino ad allora conosciuta solo tramite il filtro culturale occidentale e in particolare quello europeo.
Vincitore di svariati premi e riconoscimenti – tra cui il Premio per il Documento Umano e il Premio OCIC al Festival di Cannes del 1956 – il film, ottenuto un grande successo in patria, diventa il primo capitolo di una trilogia incentrata sul giovane Apu, figlio di una famiglia povera in un Paese povero, e sul suo lento riscatto sociale attraverso lo studio e la formazione universitaria, che il regista racconta nei successivi L’invitto e Il mondo di Apu, tratti – come il precedente – dagli omonimi romanzi di Bibhutibhusan Banerjee, qui anche co-sceneggiatore con l’autore della pellicola.
Girato in estrema economia, con attori non professionisti, Il lamento sul sentiero mostra chiaramente i segni dell’influenza neorealista e in particolare del cinema di De Sica per lo sguardo amorevole e discreto che Ray rivolge ai suoi personaggi e in particolare ad Apu, vero filtro attraverso cui osservare un ambiente in mutazione come quello indiano a lui contemporaneo. L’innocenza infantile diventa così, proprio come per il regista de I bambini ci guardano e Ladri di biciclette, l’atteggiamento con cui porsi nei confronti del rinnovamento in atto. Ma se in Italia e in Europa, la società è stata rapidamente stravolta dal boom economico, in India – come testimoniano anche i successivi India di Rossellini e L’odore dell’India di Pasolini – la tradizione arcaica non si è mai estinta, proseguendo la sua esistenza al fianco di più attuali innovazioni, in un affascinante connubio di antico e moderno che è l’intrinseca essenza della cultura indiana.
Così nel film al quasi ipnotico ritmo di sitar si susseguono, senza un particolare ordine cronologico, i piccoli episodi di vita quotidiana che compongono la struttura narrativa della pellicola; immagini dissonanti con quelle di altre cinematografie, apparentemente così lontane nel tempo, eppure coeve al periodo di grande sviluppo economico occidentale. Lontane come paiono i costumi, le usanze, i luoghi e i volti registrati dalla macchina da presa con dovizia quasi documentario-antropologica, che rende lo spettatore una sorta di bambino a sua volta, che si affaccia su una dimensione nuova con curiosità e attrazione, esattamente come fa il piccolo protagonista, spiando dal visore di una sorta di Kaiserpanorama le vedute di capitali europee. Questa breve inquadratura diventa l’emblema del film stesso e della concezione del mezzo cinematografico come finestra su un mondo “altro”, pronta ad aprirsi a chiunque voglia avvicinarsi a una realtà sconosciuta e lasciarsi affascinare da essa.