Un altro cinema è possibile
Yevgeni Bauer, Raymond Griffith, Aleksandr Medvedkin, chi erano costoro? Quanto (o quanto poco) sappiamo della cinematografia nazionale slovena? Quanto è stato scritto di personalità come Satyajit Ray e Ousmane Sembene?
Il fascino dell’irreperibilità sembra, in questo caso, riaccendere uno spiraglio di antica cinefilia e riassestare, seppur in un’occasione così marginale, la cara vecchia immagine del critico-traghettatore. In quale altro luogo, infatti, può emergere quella funzione di mediazione tra opera e pubblico oramai obnubilata dall’invadenza della macchina industriale? A questo proposito, anche quest’anno, il Premio Amidei non dimentica di dedicare una corposa sezione al lavoro di Ugo Casiraghi, storica firma de l’Unità e della rivista istriana Panorama, in concomitanza con l’uscita di Storie dell’altro cinema, raccolta di saggi dell’autore dedicati, appunto, a quelle cinematografie e a quei cineasti, difficilmente recuperabili nei grandi circuiti. È Lorenzo Pellizzari, anch’egli critico cinematografico e storico della critica, a curare il presente volume, sorta di chiusura di una “serie” (dopo Alfabetiere del cinema, Naziskino, ebrei ed altri erranti e Vivement Truffaut!) dedicata al lavoro (che ricopre l’invidiabile arco di un sessantennio) di Casiraghi. Noi di Mediacritica abbiamo fatto due chiacchiere con Pellizzari dopo l’appagante visione di Testimoni silenziosi (Y. Bauer, 1914), discorrendo di Casiraghi, di critica cinematografica ieri e oggi, di cinema “altro”.
Mi ha colpito molto una sua frase, inserita nella nota introduttiva al volume, in cui parla di una volontà di Casiraghi “…di essere compreso da tutti, accessibile a tutti, al servizio del lettore. Tanto da far sentire a quest’ultimo, anche quando quel film non potrà mai vederlo (…) la possibilità di esserci, di essere al suo fianco nella visione”. Mi chiedevo se secondo lei, quando si parla di “cinema altro”, la critica possa, all’occorrenza, sostituirsi alla visione.
Questa frase era volutamente paradossale, ma esplicativa del fatto che i lettori de l’Unità, ai tempi, si fidavano ciecamente dei giudizi, delle interpretazioni, delle analisi di Casiraghi. Si può dire, infatti, un po’ provocatoriamente che leggere i film che Ugo recensiva fosse quasi come vederli assieme a lui.
È interessante infatti notare che, nonostante trattasse anche di un cinema pressoché invisibile, Casiraghi facesse parte di una critica divulgativa, aperta a tutti, con poche concessioni a tecnicismi e a termini ermetici. Lei trova sia, oggi, ancora possibile una distinzione tra critica quotidianista e critica specialista?
La critica quotidianista oggi ha perso la propria funzione. All’epoca di Casiraghi, il critico aveva una forte autorità riguardo all’orientamento della visione: era, in tutto per tutto, un mediatore culturale. Anche la critica più specializzata, se parliamo di un periodo compreso fra gli anni ’50 e gli anni ’80, era molto ben assestata. E poi, allora le fazioni erano molto più nette e le riviste si “scannavano” a vicenda: c’erano Cinema Nuovo, Ombre Rosse, Filmcritica, Cineforum, Cinema e Film… ognuna aveva i propri standard qualitativi, estetici, critici e lavorava con parametri forti. Anche ora la critica specialistica trova un suo spazio, mentre, nel coacervo di blog, fanzine e testate online, la critica quotidianista si trova in “un gran casino”. Certo, leggo volentieri MyMovies e leggo anche le recensioni dei lettori: alcune le trovo interessanti, molte altre pessime; ognuno ha però diritto ad esprimere la propria opinione…
In un’occasione lei parlò di Casiraghi come di un “vero comunista”. Quanto è importante la parola “critica” per un comunista?
È fondamentale. Casiraghi era un “vero comunista” perché non lo era fino in fondo. Era un “comunista critico” prima che un critico comunista.