Favola nera
Ripensare i luoghi che ci circondano in un repertorio di immagini atipico e straniante, frutto della pazienza e del diverso sentire di due filmmakers consapevoli della capacità invasiva, “violenta”, che l’atto del filmare racchiude naturalmente dentro di sé.
Dopo il viaggio lungo la Penisola al seguito di giovani coppie risucchiate nel limbo dell’incomunicabilità tra singolo e Istituzione pre-matrimoniale (I Promessi Sposi), e il pedinamento delle “magnifiche sorti e progressive” di tre imprenditori italiani in Cina, testa carica di sogni ma imbrigliata nella morsa di provincialismo e debolezza (Grandi speranze), Martina Parenti e Massimo D’Anolfi – coppia nel lavoro e nella vita – alzano la posta in gioco e scelgono il confronto diretto con il Sistema, con quel groviglio di ossessioni e deformazioni che ne ammorba la struttura interna. Centro delle moderne nevrosi del mondo diventa un luogo di passaggio per antonomasia: l’aeroporto intercontinentale di Malpensa. Qui gli occhi curiosi e avidi dei due registi si sono aggirati per un intero anno e hanno colto l’essenza oppressiva di un ambiente che si fonde sull’esercizio continuo del controllo. Lo aveva già sperimentato a suo tempo il povero agrimensore K. ne Il Castello di Franz Kafka – e non è un caso che il documentario di Parenti & D’Anolfi riporti lo stesso titolo: tentare di infrangere l’intelaiatura burocratica dell’Ente superiore – il Castello, appunto – era atto preposto al fallimento e alla frustrazione. Allo stesso modo, cercare di sostenere le proprie ragioni – di libertà d’azione, di rispetto della privacy – in opposizione a un distorto senso di attuazione di un (non ben precisato) dovere morale, è gesto votato alla sconfitta e all’alienazione. Il film, nella mescolanza abile e sapientemente gestita di registri stilistici variegati legati a tecniche di riprese differenti, è in grado di restituire la complessità di quell’impasto strano e sfuggente che è la vita post-moderna. Trasformando Malpensa in un set di “identità a confronto”, Parenti e D’Anolfi puntano le luci sulla soglia, illuminano gli angoli bui di quella zona di attraversamento nella quale controllori e controllati si ritrovano “l’un contro l’altro armati” e scoprono, alla fine, che qualcuno è sempre più armato dell’altro. Uomini come tartarughe e aragoste: ispezionati fin dentro il corpo, scavati nell’intimità delle loro relazioni affettive. Uomini come milizie panopticoniane: addestrate all’“ossessione securitaria” (l’11 Settembre sarà pure servito a qualcosa, no?) e alla negazione dell’empatia. Su questo blocco delle emozioni, lo sguardo si irrigidisce: le inquadrature sono fisse, la fotografia si raffredda in tonalità livide e biancastre. Malpensa diventa, a tutti gli effetti, una prigione. L’aeroporto sembra implodere su se stesso, come macigno spezzettato in concavità anguste e soffocanti sull’umanità che raccoglie: “Il Castello […] è un viaggio verso la morte. È un film cupo: l’unica persona che riesce a prendere un volo è qualcuno che vuole restare: un rifugiato politico che non ha nessuna intenzione di tornare in Nigeria, ma che viene costretto” (Massimo D’Anolfi). Non esiste, dunque, alcuna via d’uscita? L’esercizio maniacale del controllo è un inattaccabile Nulla destinato a divorare l’umano diritto alla libertà di scelta? Forse, la risposta è nello sguardo di Milietta, l’anziana signora che “vive” indisturbata nell’aeroporto in una condizione di paradossale tranquillità e silenziosa attesa: nei suoi occhi rivolti al cielo, in quello sguardo che travalica il perimetro chiuso di uno spazio asfittico, brilla la speranza dell’inaspettato, una via di fuga immaginata, che si concede il lusso della “finzione”, e che stempera, per contrasto, la durezza graffiante della realtà documentaristica.
Prodotto da Montmorency Film (la casa di produzione di Parenti e D’Anolfi) con la collaborazione di Rai Cinema e il contributo di Lines, Il Castello ha vinto molti premi di rilievo come il Premio Speciale della Giuria agli Hot Docs di Toronto e all’EIDF di Seoul, il Premio Arci Doc alle Visioni Italiane di Bologna, il Premio della Giuria al Torino Film Festival e il Premio per la Miglior Fotografia agli International Documentary Awards di Los Angeles. Nel mondo è già stato proiettato in 50 festival internazionali. In Italia è arrivato su piccolo schermo (RAI Storia, 15 Luglio 2012, ore 23.00) in un passaggio distributivo che non garantisce la visibilità e l’attenzione che opere come questa – di così acuta sensibilità sugli orientamenti identitari e relazionali in atto nella nostra società – meritano. È ancora il caso di arrendersi all’interrogativo che nemo propheta in patria?