FilmForum Udine/Gorizia 5-14 aprile 2011
Conversazione con Giorgia Cecere
Un’esordiente alla regia, ma già veterana del mondo del cinema: abbiamo incontrato Giorgia Cecere, sceneggiatrice e regista che, al FilmForum/Spring School di Gorizia, ha presentato in anteprima il suo primo lavoro dietro la macchina da presa, Il primo incarico.
Dal Centro Sperimentale di Cinematografia al progetto Ipotesi Cinema di Ermanno Olmi, dalla collaborazione con Gianni Amelio e Edoardo Winspeare alla scrittura per la tv, la biografia di Giorgia Cecere presenta innumerevoli spunti per una conversazione su cosa voglia dire, letteralmente, fare il cinema e lavorare all’interno delle strutture pratiche e produttive alla base della creazione audiovisiva. Per una disamina del film, un asciutto dramma ambientato nella campagna pugliese degli anni ’50, vi rimandiamo alla recensione; prima della visione, però, abbiamo chiesto a Giorgia Cecere cosa l’ha portata ad avvicinarsi alla sceneggiatura e alla regia.
“Mi sono avvicinata al cinema perché, semplicemente, amavo molto i film. Soprattutto i western, devo dire, che mi piacciono ancora moltissimo per il loro lato mitico, il senso d’avventura, la spregiudicatezza nel delineare i rapporti personali e le relazioni tra i sessi… In generale, amavo, e amo tutt’ora, la libertà che si respira dentro il western, soprattutto il western classico, una libertà anche cinematografica.
Amavo molto i film, e così ho pensato che, oltre a guardarli, i film si potevano anche fare. Ho avuto l’immensa fortuna di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia, a Roma: per chi veniva dalla provincia, come me, era l’unica possibilità, e un enorme privilegio. Lì ho conosciuto Gianni Amelio, che era professore di regia. Seguivo i corsi che mi piacevano – regia, montaggio – ma ho sempre snobbato quelli di sceneggiatura. Alla fine del nostro corso, però, ci fu un incontro con Akira Kurosawa. Eravamo tutti inebetiti e come pietrificati davanti ad un personaggio così gigantesco, ma qualcuno gli pose la solita domanda: ‘qual è la cosa più importante per un giovane che voglia fare cinema?’ E lui tirò fuori la penna dal taschino e rispose: ‘Questa’.
La risposta di Kurosawa mi colpì moltissimo, e continuò ad ispirarmi anche in seguito, quando lavorai con Amelio e con Olmi. Per loro e con loro ho iniziato a scrivere delle sceneggiature, ho capito che tutto nasce da un’idea e dal riuscire, poi, a coltivarsela dentro, sviscerandone tutte le possibilità drammaturgiche ed emozionali. Se quest’esplorazione viene fatta fino in fondo, se si sa che storia si vuole raccontare e come si vuole raccontarla, tutto il resto viene, in qualche modo, naturale.
Quello che penso, e che dico sempre anche ai miei studenti della Scuola di cinema Tracce, è che un corso di scrittura per il cinema potrebbe durare potenzialmente all’infinito, mentre un corso di regia può entrare tutto in un manualetto di istruzioni. Certo, è vero quello che diceva Fellini, che dirigere un film è come essere il capitano di una nave il cui equipaggio vuole continuamente ammutinarsi. Ma è scrivere, la parte più difficile.”
Lei ha lavorato con grandi maestri e registi importanti. Com’è stato collaborare con loro nella scrittura di un film?
“Con Gianni Amelio, nei cinque anni in cui abbiamo lavorato insieme, si era creata una sorta di simbiosi molto forte e impegnativa, dalla quale, però, a un certo punto ho capito che dovevo staccarmi, oppure non sarei mai riuscita a seguire la mia strada. L’esperienza de Il ladro di bambini, di cui ho scritto i dialoghi, è stata estremamente interessante: c’era una scrittura ufficiale di partenza, molto buona, ma che non soddisfaceva a pieno Amelio. Cercava di comunicare quest’insoddisfazione agli sceneggiatori ufficiali, ma, parallelamente, mi chiedeva di rovesciare l’impianto di partenza per trovare qualcosa di originale. Era la condizione ottimale in cui lavorare: su un soggetto bellissimo e in piena libertà. Ho asciugato tutto, mi sono concentrata unicamente sui personaggi e ho aspettato di capire come si sarebbero comportati davvero, nella realtà: ho raccolto quel filo, e il film è venuto di conseguenza. E’ stata un’esperienza unica, spesso provavamo i dialoghi con gli interpreti immediatamente dopo averli scritti. Non avevo idea di come sarebbe stato il film: è stato solo alla prima proiezione per la stampa, quando ho sentito i commenti positivi, che ho capito che quel sistema funzionava.
Olmi ci incitava sempre a trovare qualcosa di vero. Così ho trovato questo metodo, che ho sintetizzato nella formula: ‘la storia di sotto e la storia di sopra’. Nella ‘storia di sopra’ ci sono tutti gli accadimenti, i fatti, puoi inventarti di tutto. Ma è nella ‘storia di sotto’ che il film scorre davvero, che porta emozioni. E’ il viaggio interiore dei personaggi, e in questo il cinema è potentissimo, più ancora della letteratura, perché può giocare con le ambiguità e le aspettative e può chiamare in causa lo spettatore, invitandolo ad anticipare e a scoprire.
Edoardo Winspeare… bè, lui è una persona adorabile. E’ un giovane intelligente, appassionato. Per lui ho scritto Sangue vivo, e poi Il miracolo, che è stato tratto da un soggetto che io, per scherzo, avevo pensato per Robert De Niro.”
Lei ha avuto la possibilità di frequentare sia il Centro Sperimentale di Cinematografia, sia di partecipare al progetto Ipotesi Cinema di Ermanno Olmi. Qual è stata la differenza formativa di queste due esperienze?
“Al Centro Sperimentale di Cinematografia c’è un’impostazione, per certi versi, molto fastidiosa: tutto, attorno a te, ti dice che sei un privilegiato, un prescelto, e questo è molto pericoloso, soprattutto per i registi. E, infatti, c’è sempre una sproporzione tra i mezzi messi a disposizione dalla Scuola e il risultato finale dei saggi di fine corso.
La scuola di Olmi, a Bassano, era invece completamente diversa, ti trattavano malissimo, non c’erano mezzi, non c’era nulla. Si faceva una cosa un po’ crudele, ognuno esponeva il proprio progetto ed erano gli altri, i compagni di corso, a giudicarne le qualità e il valore, anche se poi, sotterraneamente, era sempre Olmi a decidere che lavori realizzare. Era una riflessione fatta ad alta voce, un continuo ragionare sul cinema. Allo stesso tempo, sentivi l’asprezza, ma anche il valore, di quello che stavi facendo. Si aveva anche una grande libertà nel girare, seppur con povertà di mezzi. Girare un film diventava una vera avventura, fisica, psicologica, spirituale. Tutti potevano parteciparvi, anche persone un po’ ‘matte’, e anche questo, stranamente, funzionava.
Com’è, invece, scrivere per la tv?
“Sono perseguitata dal fatto di aver scritto anche delle puntate de I Cesaroni! Tra l’altro, erano puntate inaspettatamente molto curate. Fare lo sceneggiatore è, comunque, anche un lavoro. Ho lavorato anche con Vincenzo Cerami, e da lui passava di tutto. Cerami è un altro maestro di quelli improbabilissimi, con un modo molto naif e fanciullesco di approcciarsi alle idee, di giocare con le possibilità: senza questo suo spirito, sicuramente La vita è bella non sarebbe stato il film che è.
In fondo, il lavoro più bello che ho fatto come scrittura è stato la prima serie animata di Sandokan, trasmessa da Rai 2. Mi è piaciuto scrivere Sandokan per l’avventura delle storie e i ritmi serrati del racconto. L’animazione dà moltissime possibilità, puoi scrivere come se stessi immaginando un film di Spielberg. Mi piace poter scatenare la fantasia, quel lato che mi piaceva del western, quell’esperienza dell’avventura, del meraviglioso che è, allo stesso tempo, bello e terribile. Sono molto legata all’idea che il cinema, anche quando persegue il massimo realismo, crea sempre un altro mondo, un’altra dimensione.”
La settimana scorsa è uscito Boris – il film. Lei cosa ci dice, lo stato del cinema italiano è davvero quello che viene rappresentato nel film?
“N0n ho ancora visto il film, ma ho molto amato la serie. E’ tutto vero, verissimo. Fare cinema e tv, in Italia, è davvero molto difficile. Fortuna che poi ci sono quelli di Boris, che vendicano tutte le nostre fatiche con il loro umorismo preciso e tagliente.”