Viaggio al termine della notte
Avevamo lasciato David Cronenberg circa un anno fa con A dangerous method, un film così tanto corretto e rispettoso che a non guardare i titoli di coda nessuno avrebbe mai pensato che dietro la macchina da presa si fosse seduto lo stesso regista di Spider o A history of violence.
Abbiamo ritrovato David Cronenberg pochi giorni fa, nel buio della sala, con Cosmopolis, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Don DeLillo.
Ci siamo seduti con qualche pregiudizio, è vero, considerando che l’attore protagonista, Robert Pattinson, era reduce da una di quelle maledette trilogie post-moderne che, solitamente, ti bloccano la carriera e la crescita. Buio in sala. Il primo impatto è devastante. Dopo poche sequenze veniamo catapultati dentro una limousine hi-tech insonorizzata che, a seconda delle necessità, può farsi bara o tempio del corpo e dello spirito. Eric Packer, giovane broker multimilionario, incurante dello stato di allarme annunciato per un possibile attentato al Presidente degli Stati Uniti, decide di attraversare la città per farsi aggiustare il taglio di capelli. Durante l’odissea joyciana discuterà dell’andamento dello Yuan, la moneta cinese, con personaggi simbolo delle alienazioni della società capitalista. Lo spettatore non deve mai cadere nel facile tranello di considerare Eric Packer un essere umano. Egli rappresenta lo spirito capitalistico degli anni duemila: il cyber capitale. In lui ogni sentimento, che sia amoroso o rivolto verso un oggetto artistico, viene ridotto alle componenti primarie del profitto, per cui non esiste l’amore ma il sesso, non esiste l’oggetto artistico ma solo un lotto da acquistare. Eric vive dentro una bolla: può osservare la disperazione delle persone scese per strada ma non vuole sentire le loro grida, più sono alte le perdite in borsa e più impellente è la voglia di comprare. Forte di questa barriera, Eric corre senza paura nella notte. Maestro nel definire lo spazio diegetico, Cronenberg perde forse qualcosa in alcuni dialoghi ridondanti basati su temi di contorno che sviano l’attenzione dello spettatore dall’obiettivo ultimo della storia: mettere il protagonista di fronte alle sue colpe. Ma, nel complesso, recupera una messa in scena suggestiva che nel precedente film si era persa fra le pieghe della speculazione filosofica e sentimentale. Non ha vinto a Cannes, ma poco importa: fra dieci o vent’anni ci troveremo ancora a parlare di questo film, con nostalgia o tremenda rassegnazione: questo è l’unico dubbio.