Nello speciale della rivista Cinergie (www.cinergie.it), che è apparentata a Mediacritica essendone in fondo la costola accademica, si affronta il tema della crisi economica. Si sostiene che gran parte del cinema contemporaneo, direttamente o indirettamente, tocca l’argomento. Anche quando sembra esserne piuttosto lontano.
Il problema della crisi economica, anzi finanziaria, è che si basa per lo più su derivati e titoli tossici, che già di per sé non rappresentano moneta corrente o materia solida. Non basta, dunque, come faceva Bresson, inquadrare l’argent per toccare con mano (con occhio) il problema. Ecco perché qualcuno, per esempio, Soderbergh l’ha trasformata metaforicamente in un virus, che almeno ha degli effetti corporei molto evidenti e dunque offre concretezza a ciò che non si vede. Anzi, in Contagion, si cerca di vedere a un certo punto, grazie a una videocamera di sorveglianza, persino il momento nel quale un soffio, un tocco, un sospiro spargono il virus. Ma il virus – la crisi – è comunque irrappresentabile e costituisce il buco nero del cinema. Tutto questo sfugge parzialmente ai film esplicitamente dedicati alla crisi. Non deve essere un caso infatti che essi – da Too Big to Fail a Margin Call, nostro film della settimana – si basino per lo più sulla parola. Su come definire l’enormità del problema. Su evocazioni verbali del disastro. Sulla dimensione fatica della tragedia.
È la stessa indefinitezza in cui si trovano tutti coloro che non masticano al meglio di economia e finanza, dunque la maggior parte delle persone. Possiamo anche esserci abituati ad analizzare spread, bond e btp, ma alla fine molti di noi capiscono ben poco di quel che accade, anche se hanno perfettamente presente che finiscono sempre col rimetterci. Il cinema, che in fondo convive con la parola crisi (la propria) da sempre, in termini ciclici, da una parte è colpito dalla crisi generale, con la flessione degli incassi e la chiusura delle sale, e dall’altra cerca di parlarne, o di discorsivizzarla (usando un faticoso termine teorico). Il teatro della parola, tuttavia, sembra insufficiente a vedere il baratro, che rimane sullo sfondo, come se fosse l’invenzione narrativa di qualche favolista di cattivo umore.