Dal Vangelo secondo Fazio e Saviano
Quello che ho è un programma che sperimenta e si sforza, con coraggio, di uscire dal p(i)attume televisivo, proponendosi come neo rappresentante della compianta tv intelligente.
Quello che non ho (più) è il regime di terrore sotto cui era nato, che tentava di sopprimere qualunque voce fuori dal coro con editti bulgari e minacce telefoniche ai direttori di rete, facendo di conseguenza risultare più valorosa l’impresa degli impavidi che trasgredivano.
Quello che vorrei è che questo paese si divincolasse dal manicheismo intellettuale che lo attanaglia, ritrovando il gusto per le mezze misure che intercorrono tra un entertainment decerebrato ed un intrattenimento che, per mostrarsi impegnato, elimina ogni patina di leggerezza. Toni plumbei e solennità liturgiche hanno dominato due delle tre serate ospitate da la7, andate in onda dalle Officine Grandi Riparazioni di Torino. La coppia paladina delle questioni morali, accompagnata dall’angelo custode De André e dagli amici di sempre del milieu culturale di sinistra, ha utilizzato a questo giro la forma teatrale del reading per invitare a riflettere sul valore delle parole, portando all’attenzione in un susseguirsi di interventi l’intera serie di piaghe che affliggono l’umanità.
Le lezioni di educazione civica di Saviano sicuramente servono. Servivano ai dieci milioni di telespettatori di Vieni via con me, che per la prima volta nella storia, per quattro lunedì di seguito, sconfiggevano all’auditel il Grande fratello, invocando di conseguenza la fine di una politica condotta a mo’ di reality show; e servono ancora oggi, per non dimenticare. Così come non bisogna mai dimenticare chi è Roberto Saviano, un ragazzo che a 27 anni decide con un libro di denunciare la camorra (fino a quel momento argomento tabù), firmando la propria condanna a morte. Ma sarà ancora consentito, si spera, sollevare perplessità sull’utilità sociale di un discorso fondato su interpretazioni personali (la lettera inviata in carcere a Michele Zagaria), interrogarsi sulle sue doti di scrittore, nonché di monologhista, che nel contesto televisivo non sempre reggono la scena e a tratti annoiano. L’arte oratoria inoltre, va esercitata sulle folle da un guru spirituale alla volta. Non serve affiancarsi ad altri prosatori, altrettanto antitelevisivi, chiamati a dare l’estrema unzione ad un popolo che per troppo tempo si è pianto addosso. L’attuale congiuntura storica necessita anche di speranza. Come ha scritto Beppe Severgnini, “Non si può abbattere una Nazione già abbattuta”, perché adesso che abbiamo voltato pagina bisogna rialzarsi e compiere un’opera di ricostruzione pari a quella del dopoguerra.
Lo share ha premiato l’iniziativa, ma le polemiche devono essere giunte a destinazione se nella serata conclusiva si è deciso di raddrizzare il tiro dando notevole spazio alla musica e alla verve comica. Personalmente ricordo poco degli interventi inghiottiti dal clima funereo, mentre ricordo benissimo il discorso di Ermanno Olmi sul tempo tiranno e cos’è un Laogai. Questo perché con una scansione ritmica adeguata i messaggi penetrano molto più efficacemente, sorretti da un intervallo che ne veicola l’assimilazione. E “Wonderful world” eseguito da Elisa, è stato un traino perfetto per spingerci a guardare avanti.