Il futuro è vintage
Questa volta il jolly pescato dagli Studios è il bestseller The Hunger Games, scritto nel 2008 da Suzanne Collins e già venduto in 38 Paesi. Il compito di trasformare il primo capitolo della sua trilogia fantascientifica in una saga da milioni di fan, viene affidato a Gary Ross, forse non un maestro del genere ma di sicuro un campione d’incassi.
Il risultato, infatti, è che le casse della Warner Bross si iniziano a riempire, l’esordio negli States è da record, arrivano risposte di mercato positive da tutto il mondo.
Se l’operazione commerciale sembra partita bene, avallata dalla risposta degli adolescenti, chi più in là con gli anni ha qualche ragione in meno per essere entusiasta. È probabile che i ragazzi nati dopo il ’90 non abbiano mai visto Battle Royale e (forse) ricordino Schwarzenegger come governatore della California più che nelle vesti de L’implacabile. Stessa cosa vale per La decima vittima, Rollerball, Anno 2000: La corsa della morte, Contenders serie 7.
Hunger Games fa più o meno lo stesso effetto di quella fantascienza. Dei “settantaquattresimi giochi della fame” – che portano nella grande città di Capitol un concorrente per ognuno dei suoi 12 distretti poveri (visti anche in In Time) – è come se conoscessimo già le 73 edizioni precedenti. La sensazione di un film d’altri tempi non è data solo dalla storia sceneggiata da Ross insieme alla Collins e Billy Ray. Hanno un sapore vintage le ambientazioni del mondo di Panem, le modeste scenografie di Capitol (per lo più interni), i suoi costumi e le colorate acconciature che ricordano piuttosto la disco music anni ’80. Ci si sarebbe aspettato molto di più anche dalla fotografia di Tom Stern.
Per il resto, pochi gli sviluppi tematici rispetto a un cinema che quarant’anni fa, pur realizzato con pochi mezzi, era quantomeno incisivo nel sottolineare le contraddizioni del proprio tempo. Di nuovo c’è solo il ruolo dell’eroe, ritagliato per una una giovane protagonista (Jennifer Lawrence) che, al contrario di quanto accade alle sue coetanee nei reality di oggi, finisce nel grande show per spirito di sacrificio e vince (quasi) esclusivamente grazie alle proprie abilità. Difficile, però, farne una piccola icona femminista; un eroe al maschile non avrebbe fatto differenza. La retorica e la morale che l’accompagnano fino allo scontato finale, seguono il classico copione pieno di buonismo hollywoodiano nell’occasione tarato per sedicenni tosti ma nobili di cuore. Senza voto i compagni di gioco come impalpabili risultano le presenze di Donald Sutherland, Lenny Kravitz e di un Woody Harrelson nascosto da una parrucca bionda.
Purtroppo neanche le suggestioni intorno al fatidico 2012 sembrano riuscire a regalarci scenari diversi da quelli conosciuti. Si ricalibra il tiro in modo da non sbagliare target, ma si va sull’usato sicuro. Per rivolgersi al pubblico (giovane) con una saga di puro intrattenimento meglio allora il roboante spettacolo digitale dei Transformers o le avventure dei supereroi Marvel che, se non altro, non mancano di stupirci con effetti speciali. Le distopie, così trattate, appaiono oggi fiacche, prevedibili e oramai datate. Sarebbe ora di lasciarle alle spalle ed esplorare altri mondi. I ragazzi (ma anche agli adulti) meriterebbero un “futuro” migliore.