Un tuttofare
In un futuro prossimo, lo Stato dittatoriale di Panem obbliga ognuno dei dodici distretti di cui è composto, rei di aver scatenato una guerra civile poi persa, a offrire annualmente due giovani, un maschio e una femmina, per gli “Hunger Games”, sorta di deathmatch dove i ventiquattro ragazzi, chiusi in una gigantesca arena, devono uccidersi a vicenda (finché ne rimarrà uno solo).
Il tutto ripreso da migliaia di telecamere e trasmesso continuamente su ogni schermo della nazione, con tanto di obbligo ad assistere allo show per tutti i cittadini (che in realtà se lo godono).
Ma la settantaquattresima edizione degli “Hunger Games” vede tra i concorrenti la determinata Katniss Everdeen, le cui azioni e scelte morali durante gli scontri provocheranno rivolte in tutto lo Stato, e costringeranno la dittatura a rivedere le regole dei giochi.
Hunger Games ha tutte le carte in regola per essere un ottimo film, eppure lascia la forte sensazione di aver assistito a un enorme, gigantesca sola. Certo si presenta bene: regia (di Gary Ross) efficace tra grandi scene di massa e riprese traballanti con macchina a mano, scenografie magniloquenti, costumi sgargianti e un ottimo cast che affianca giovani promesse (Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson) a uno stuolo di star affermate in ruoli secondari azzeccatissimi (su tutti Stanley Tucci e Woody Harrelson).
Lo spettacolo sarà pure assicurato, ma ha il sapore del precotto. Hunger Games pesca a piene mani dai campi più svariati e apparentemente riesce ad amalgamare il tutto con una certa efficacia. Prende spunto dalla mitologia greca (il mito di Teseo e il minotauro; Katniss vista come una moderna Diana), dai fumetti (con i costumi grotteschi che ricordano quelli della Trilogia Nikopol di Enki Bilal), dalla letteratura e ovviamente dal cinema, (come L’implacabile di Paul Michael Glaser del 1987 o Anno 2000 la corsa della morte di Paul Bartel del 1975), da tutti quei film di fantascienza e non che cercano di intavolare discorsi originali sui temi dell’invasione dei media e sulla loro rilevanza sociale, della “morte in diretta” e del bisogno di violenza del pubblico. Peccato che una volta iniziate, in Hunger Games queste riflessioni vengano accantonate, non approfondite, tralasciate per far spazio ad altro, altri spunti, altre suggestioni, altre idee. Che a loro volta verranno lasciate a metà per passare ad altre ancora.
Un vecchio motto recita che un tuttofare non è maestro in niente: Hunger Games è un tuttofare, in grado di trattare più argomenti, senza specializzarsi in uno in particolare. E senza quindi riuscire a dire qualcosa di originale. È dovuta a questo, la forte sensazione di fregatura: che Hunger Games non sia altro che un costoso, vuoto e dannatamente raffinato esercizio di stile.