Le necessità del supereroe
Chi vi scrive non è un amante dei supereroi, anzi a esser più precisi si può parlare di una certa antipatia nei confronti dell’ondata di cinecomics che ha investito i nostri cinema durante il nuovo millennio fino a oggi (seppur con qualche doverosa eccezione come il Batman nolaniano).
L’uscita di The Avengers dovrebbe quindi rappresentare, per chi come me non ha mai digerito fino in fondo questa predominanza produttiva, una pellicola di poco appeal. In questo caso però la storia è diversa, e lo è per tutta una serie di singolari aspetti che spezzano alcuni topoi classici dei cinecomics, nonché per la gran capacità d’intrattenere.
I pregi narrativi sono semplici da individuare, come l’assenza di uno schematismo di fondo tipico di pellicole che mettono al centro la nascita di un gruppo di protagonisti, nonché la capacità di mantenere sempre desta l’attenzione del pubblico per tutta la lunga durata alternando, senza mai eccedere, fasi d’azione a parti dialogate, dove ad esser esaltate, intelligentemente, sono le personalità dei singoli supereroi più che la trama in sé.
Whedon, regista e sceneggiatore, crea dialoghi intrisi d’ironia che evidenziano le debolezze di ogni personaggio senza per questo risultare mai parodici, tanto che i quattro eroi ci appaiono degli inadeguati: lo shakespeariano Thor e il retorico Capitan America, anacronistici nel loro linguaggio; Tony Strark/Iron Man e il suo sarcasmo, maschera per celare la poco limpida morale che lo ha contraddistinto in passato; Bruce Banner/Hulk, la cui pacatezza è manifestazione del disagio esistenziale dovuto dall’altro sé che lo inibisce alle più basilari reazioni istintuali. Whedon, in breve, problematizza i singoli eroi manifestando, con intelligente ironia, le nevrosi che li contraddistinguono: evita la banale umanizzazione degli eroi, e al contrario ne mette in crisi l’ego che da sempre li contraddistingue.
Ed è proprio quest’aspetto che rende The Avengers diverso da molti cinecomics passati in questi anni: qui l’ego dei singoli personaggi viene decostruito. Per carità, è vero che in tutte le pellicole griffate Marvel quest’aspetto è centrale, ma è altrettanto vero che la presa di coscienza dell’Io avviene sempre per via personale. Whedon al contrario non mostra un percorso individuale (perché del resto già avvenuto nelle precedenti pellicole dedicate al singolo supereroe), ma neanche un bisogno collettivo come il film facilmente potrebbe fare intuire (la collaborazione fra i personaggi è una semplice condicio sine qua non che altrimenti li vedrebbe soccombere di fronte all’esercito alieno). Probabilmente l’unica vera azione collettiva (escludendo la Venere Nera, priva del senso edipico degli altri eroi) che li vediamo compiere è quella di superamento del padre putativo, Nick Fury, con la messa in discussione dei veri obiettivi dello S.H.I.E.L.D., e che di fatto è il primo passo di emancipazione dei Vendicatori. Ciò che vediamo in The Avengers è la necessità di trovare per ognuno un partner con cui dividere la stessa singolarità, liberandolo dalla sostanziale situazione di solitudine, ma che allo stesso tempo sia anche nemesi di sé stesso: per questo Bruce Banner andrà a lavorare con Tony Stark (la paura e l’incapacità di governare sé stesso contrapposte al narcisismo e all’eccessivo controllo computerizzato della propria vita), o Thor che non odierà mai il fratello Loki e che contrariamente, pur di non ucciderlo, tenterà più volte di persuaderlo dal suo piano di morte, o il doppio rapporto di riconoscenza e comprensione che legano la Venere Nera e Clint Barton, mentre per Capitan America la reale scoperta del proprio ruolo di idolo, e quindi d’influenza delle masse (mostrato con l’incontro dell’agente Phil Coulson), lo rende in qualsiasi momento nemesi di sé stesso ma allo stesso tempo mai solo, perché il più umano fra tutti.