Ogni generazione ha i suoi viaggi da affrontare
Nella primavera del 1999, due amici nati e cresciuti in un piccolo villaggio sloveno decidono di modificare i loro motorini e partire per un viaggio senza destinazione, alla ricerca di amore e libertà. Tra Slovenia e Croazia, che si sono appena affrancate dalla Jugoslavia, i giovani viaggiano in compagnia di una fuggitiva dal misterioso passato e di un vecchio motociclista che da ragazzo ha intrapreso il loro stesso percorso.
All’inizio di Riders, opera prima di Dominik Mencej, Tomaž e Anton, i due ragazzi protagonisti, guardano un film in videocassetta. Il titolo non verrà mai pronunciato né vedremo mai delle immagini. Eppure, in modo tutt’altro che velato ma mai invadente, viene lasciato intuire che si tratti di Easy Rider, il capolavoro generazionale, simbolo della New Hollywood, diretto da Dennis Hopper nel 1969.
Quel film diventa dunque una presenza fantasma diffusa in ogni aspetto di Riders, dalla storia proposta fino al tema del viaggio come fuga e occasione per trovare sé stessi, senza dimenticare precise inquadrature che richiamano in modo ulteriormente esplicito il film di Hopper. Ma facciamo un passo indietro. Tomaž e Anton sono due amici in un desolato villaggio della Slovenia. Un luogo troppo piccolo per loro, dove si alternano tra officina e chiesa il primo, e un frustrante lavoro come postino il secondo. Grazie alla visione del film di Hopper, iniziano a sognare una vita diversa da quella che portano stancamente avanti. Rimediati due motorini, ecco allora che incomincia il viaggio, durante il quale incontreranno inaspettati complici e problemi esistenziali con cui fare i conti. Riders si muove dunque nei territori del coming of age e del road movie, proponendo però quest’ultimo in modo tutt’altro che idealizzato. I due protagonisti, infatti, si spostano a bordo di motorini, non di vere e proprie moto; vanno incontro a numerosi incidenti di percorso; giocano a fare i vagabondi ma hanno promesso alle famiglie di tornare a casa entro un tot di giorni. Elementi che il regista utilizza per ricordare continuamente allo spettatore di star guardando due ragazzi che provano a fare i grandi, perché a diventarlo non glielo ha mai insegnato nessuno. Se Tomaž vive infatti all’ombra di una madre e di una fede religiosa opprimente, Anton è invece cresciuto senza una figura paterna. Naturalmente nel corso del loro viaggio si troveranno a doversi scontrare proprio con queste cicatrici, compiendo così quel passaggio verso l’età adulta. Mencej costruisce un racconto delicato, profondamente concentrato nel fare emergere tutto il mondo emotivo dei personaggi, che nella loro ricerca di calore umano si pongono in aperto contrasto con la desolazione e la solitudine comunicata invece dagli spogli paesaggi da loro attraversati. Un utilizzo dell’ambiente circostante che ricorda quello proposto dal regista Terrence Malick nel suo La rabbia giovane, altro celebre road movie statunitense da cui Riders eredita alcuni elementi stilistici. Come sempre in queste occasioni, l’importante è il viaggio, non la meta. Un viaggio che, come fin qui riportato, è tanto esteriore quanto interiore, con l’obiettivo di raccontare una generazione e un periodo storico caratterizzati da profonda incertezza. Il racconto è infatti simbolicamente ambientato nel 1999, al termine dunque di un secolo e di un intero millennio, durante il quale in più occasioni si accenna alla minaccia del Millennium Bug quale evento che “azzererà” la Storia, quasi come se si cancellasse letteralmente ogni possibilità di futuro. Un futuro che Tomaž e Anton, assunti a rappresentanti della loro generazione, faticano a immaginare e che cercano di inseguire con questo loro viaggio. Il regista non rivela l’esito di tale ricerca, ma non si risparmia nel descrivere la necessità e l’urgenza di questo tentativo.
Riders. Riders. Riders. Riders. Riders. Riders.