Non possumus o il principio dell’impotenza
Bologna, 1858. Sfruttando un cavillo burocratico, la Chiesa cattolica preleva il piccolo Edgardo Mortara, sesto di otto fratelli, per portarlo a Roma ed educarlo alla religione cattolica tradendo la fede ebraica che la famiglia Mortara professa. Comincia così un caso giudiziario che scuoterà l’Italia e il mondo e che si sovrapporrà coi moti che porteranno alla conquista di Roma da parte del regno sabaudo.
Nel corso di una carriera più che cinquantenaria, in cui i film dell’ultimo ventennio si sono rivelati in gran parte tra i più vitali, maturi ed elettrizzanti, Marco Bellocchio ha da sempre avuto un occhio avvelenato contro i sistemi di potere, specie quelli che aderiscono alla triade Dio-Patria-Famiglia, dando vita a mostri istituzionali come l’esercito, il sistema dell’informazione e via elencando, come se tutti i gangli della nostra società fossero figli di quel trittico.
Nel suo film più recente, Rapito, i tre cardini di una certa ideologia politica passata all’anagrafe, ma ancora viva nel cuore di molti, si fondono in un racconto che fa della polemica, messa in scena secondo un percorso da film processuale, il veicolo per raccontare lo spaesamento di un bambino, poi ragazzo, dei suoi parenti e di un’intera comunità di fronte all’arbitrarietà del potere, soprattutto di fronte al dato che quell’arbitrarietà sembra sia quasi l’essenza stessa del potere. Il piccolo Edgardo viene sottratto alla famiglia ebraica sfruttando un cavillo della legge italiana, all’epoca calcata sulla legge della Chiesa: siccome una cameriera lo aveva battezzato quando era piccolo, credendolo in fin di vita, il Vaticano lo porta via per crescerlo da cattolico. Basta quel gesto per distruggere una famiglia – ebrea, quindi indegna di avere gli stessi diritti di un cattolico, stando all’epoca – e cambiare il corso di una vita con l’arroganza di chi crede che l’esercizio del potere sia anche l’espressione di ciò che è giusto nel mondo. Nelle prime fasi di lavorazione, si pensò di intitolare il film La conversione, concentrandosi sul percorso che Edgardo fa nel collegio cattolico al fianco di papa Pio IX. Successivamente venne dato il titolo provvisorio di Non possumus, la locuzione che nel XIX secolo la Chiesa opponeva a tutti coloro che cercavano di trattare con lei riguardo a posizioni tanto politiche quanto teologiche, ovvero le parole che indicano l’arroccamento di una forma di potere dietro i bastioni del suo credo.
Il titolo definitivo, Rapito, è quello più immediato dal punto di vista drammatico, ma, con una sola parola, rende meglio l’intreccio delle linee narrative che rendono il film così ricco e complesso, in cui il percorso di una famiglia dentro la propria impotenza e quello di uno Stato che sfoga il proprio dominio sul singolo individuo per sfogare la perdita di forza sul terreno della Storia e della politica. Assieme a Susanna Nicchiarelli, per la prima volta collaboratrice di Bellocchio, il regista compone un affresco stratificato, dal passo narrativo ampio e dal respiro cinematografico robusto, in cui la denuncia e le eredità del cinema civile si incastonano in quella ricerca della confusione spirituale e identitaria che spesso è al centro dei film dell’autore e che si apre coi minuti anche alla necessità del romanzo storico che è tra le vene più fertili del cinema recente del cineasta di Bobbio.
Un film fosco e tumultuoso, come un romanzo ottocentesco, in cui la fotografia dagli accenti caravaggeschi di Francesco Di Giacomo e il lavoro degli attori sul non detto e sull’implosione emotiva (magistrale Barbara Ronchi, mamma Mortara) portano lo spettatore in una zona difficilmente definibile, ma densa di tensione, di commozione trattenuta, di rabbia sospesa che continua ad accarezzare il cinema, sempre grande, di un magnifico ottantenne.
Rapito. Rapito. Rapito. Rapito. Rapito. Rapito. Rapito.