…del figlio, e dello Spirito Santo
Angelo Transeunti è un ragazzo intelligente e violento. Tra una lezione e una predica, la vita nel collegio accentua la sua personalità carismatica, la sua attitudine al comando rivoluzionaria e autoritaria. In occasione di una rappresentazione teatrale, egli mette in scena coi compagni uno spettacolo grottesco il cui scopo è deridere i maestri e lasciare un’impressione indelebile nell’animo degli spettatori.
Il terzo film diretto da Marco Bellocchio si apre con una serie di inquadrature degli interni di un edificio abbandonato, cadente, sporco. Panoramiche e carrellate ondeggianti ci mostrano i corridoi fatiscenti e i graffiti sui muri dell’antico collegio religioso mentre un tema corale accompagna i titoli di testa in rosso acceso. Poi si torna indietro fino all’anno scolastico 1958-1959. Nel nome del padre è il racconto di un luogo di cui conosciamo già la storia, della fine di un’epoca la cui eco entra nel mondo chiuso del collegio tramite la notizia della morte di Papa Pio XII, significativa per le polemiche che ne segnarono il pontificato. Ma non solo, la cornice storica, presente a macchie, è infatti presto affiancata dall’elemento umano nella figura del giovane Transeunti: violento, esuberante, insofferente, determinato a distruggere quanto di buono e rassicurante c’è nella società borghese, a cominciare dal padre che prende sfacciatamente a calci e schiaffoni. Marco Bellocchio non si è mai trattenuto quando si è trattato di mostrare il conflitto: che fosse generazionale, politico o religioso, è sempre stato messo in scena nella sua realtà materiale, esternato, urlato, arricchito di tinte grottesche fin nelle declinazioni più isteriche. Se I pugni in tasca aveva raccontato il decadimento in stato avanzato di una borghesia nevrotica e La cina è vicina si concentrava sulle bassezze della politica nella sua realtà più mondana e provinciale, con Nel nome del padre Bellocchio chiude un’ideale “resa dei conti” ponendo lo sguardo sull’educazione cattolica dei borghesi, sulla rigida istituzione religiosa che ai giovani nati a cavallo della Seconda Guerra Mondiale appariva concepita per forgiare degli uomini inadeguati. Repressi, ignoranti, instabili, facilmente coercibili: l’autore non dimostra alcuna simpatia nei confronti degli studenti e non chiede allo spettatore di provarne alcuna. E in effetti con lo scorrere della pellicola diventa progressivamente più difficile distinguere chi sia il carceriere e chi il carcerato. Dopo che i protagonisti mettono in scena uno spettacolo teatrale blasfemo per smuovere gli animi degli studenti più giovani, infatti, manca una risposta decisa da parte dei maestri e i rapporti di potere nel collegio si deteriorano con magica rapidità. Emerge la vena surreale del film, un fantasma con la maschera di cane si aggira per i corridoi portando lo scompiglio nel collegio; non ha rispetto nemmeno per i morti. Lo insegue padre Corazza, il vice rettore, un maestro tutto sommato compassionevole e paziente. L’aspirazione eversiva e autoritaria di Transeunti sembra avere radici non soltanto nella coercizione che subisce nella vita di tutti i giorni – gli studenti sono ancora chiusi a chiave nelle loro stanze di notte – ma piuttosto nell’indole profonda e nei riferimenti culturali (da Nietzsche a Mao Zedong). La follia, la violenza, la rivoluzione fallimentare, lo spettro della deriva autoritaria; è impossibile non intendere il film come un commento disilluso al Sessantotto, qui irrazionale rivoluzione degli studenti che non può conciliarsi con le più modeste rivendicazioni sindacali dei dipendenti del collegio. Uno scavare nel passato del regista, insomma, che assume significati più moderni e perfino senza tempo; sarà forse per questo motivo che nel 2011, in occasione della ricezione del Leone d’oro alla carriera, il film è stato rimontato da Marco Bellocchio in una versione director’s cut, più breve di una quindicina di minuti.
Nel nome del padre. Nel nome del padre. Nel nome del padre