Nel ghetto
Hleb Papou è una figura decisamente peculiare all’interno della cerchia degli esordienti cineasti italiani. Di origini bielorusse ma cresciuto in Italia, inserisce questa sua doppia appartenenza culturale all’interno del suo primo lungometraggio Il legionario, traslandola dalle proprie radici est-europee a quelle africane del protagonista del film.
L’intera vicenda ruota attorno alla scelta etica che deve compiere il celerino Daniel (Germano Gentile), quando gli viene dato l’ordine di far sgomberare un edificio occupato, in cui vivono la madre e il fratello Patrick (Maurizio Bousso).
Papou crea un forte legame di veridicità tra gli interpreti e i personaggi messi in scena dando vita a un racconto che si muove tra la struttura finzionale del cinema di genere e un realismo sociale, a tratti quasi documentaristico. La tensione emotiva che percorre Il legionario per tutti i suoi 82 minuti di durata è costruita come una bomba a orologeria, mentre il protagonista è costantemente scisso tra il senso del dovere e di appartenenza all’arma e l’amore per i propri famigliari e le proprie origini. Papou fa del suo esordio sia un film aderente al linguaggio dell’odierno cinema di genere italiano (guardando specialmente a Stefano Sollima), ma anche un prodotto autoriale di respiro europeo, vicino ai drammi sociali ambientati nelle banlieue parigine. Opere come L’odio (1995) e il recente Athena (2022) gli sono vicine più che altro per motivi tematici, ma Il legionario non possiede la regia nervosa di Mathieu Kassovitz, ne lo stile virtuosistico di Romain Gavras, presentando un certo minimalismo narrativo e una direzione secca che evita qualsiasi artificio spettacolare. La suspense presente nel film è quasi tutta sotterranea, serpeggia dietro i dialoghi (spesso feroci) e i silenzi dei personaggi, pronta a esplodere nello scontro finale tra i due fratelli, che raggiunge il climax della tensione emotiva aggirando qualsiasi tipo di retorica e lavorando sulla forza della pietas rivolta ai due personaggi. Lo sguardo di Papou non si schiera mai definitivamente dalla parte di Daniel o da quella di Patrick, ma resta empaticamente vicino ai rovelli esistenziali di entrambi.
Se da un lato la vicenda dello scontro tra gli occupanti dello stabile e le forze dell’ordine prende la via del poliziesco politico, dall’altro si inserisce nelle pieghe del melodramma familiare, quando racconta nell’intimo l’esistenza di Daniel e dei suoi affetti personali, creando una doppia traiettoria narrativa ed espressiva che va quasi a mimare la scissione emotiva che lacera il protagonista.