Anime postumane
Molti conoscono Phil Hester per il suo lavoro come disegnatore per Swamp Thing della DC/Vertigo nella fase in cui lo scriveva Mark Millar. Ma Hester è stato in realtà molto attivo nel fumetto indipendente e ha sempre avuto una gran voglia di sperimentare, tant’è che nel 1997 la sua The Wretch (che lo vedeva anche come autore) venne nominata per un Eisner Award come miglior nuova serie.
Poi ci furono altre collaborazioni, tra cui quella con Kevin Smith che lo condusse a lavorare per il revival di Green Arrow, di nuovo per la DC, con Ande Parks agli inchiostri.
L’incontro che però ci interessa in questa sede è quello con Mike Huddleston, illustratore e concept designer di discreta fama. La collaborazione tra i due portò a The Coffin, titolo che fu distribuito tra il 2000 e il 2001 da Oni Press. Succede allora che a 22 anni dalla sua uscita, ArgoLibri decide di tradurlo in Italia e – aggiungerei – dovremmo essergliene molto grati. The Coffin ci racconta una storia che potrebbe sembrare già sentita: il dottor Ashar Ahmad vuole sconfiggere la morte e ci riesce. Crea una specie di armatura che può contenere l’anima una volta che il corpo ha perso le sue funzioni vitali, donando così la vita eterna a chi la utilizza. Il lavoro di Hester e Huddleston tocca i nervi scoperti del discorso sul postumano e lo fa in un periodo in cui il dibattito era ancora molto caldo. L’interrogarsi sul corpo, sulle sue potenzialità, sul suo futuro e sul suo stretto rapporto con l’evoluzione degli orizzonti tecnologici, è assai presente in The Coffin. Negli stessi anni in cui usciva questo fumetto, Naief Yehya (autore di Homo Cyborg) rifletteva su come il cyborg rappresentasse “un’alternativa apparentemente plausibile per affrancarsi dalla carne”. Rifiutare il corpo – scriveva – “significa rifiutare le funzioni organiche, come quelle relative al mangiare e al defecare, o alle malattie e alla vecchiaia. L’odio per il corpo costituisce una reazione prevedibile da parte di una società ossessionata sia dal consumo sia dalla perfezione fisica”.
The Coffin trasuda questo odio, lo fa materializzare attraverso un lavoro intenso sui personaggi, che appaiono tanto definiti nei loro corpi (anche grazie al notevole tratto netto, quasi in assenza di chiaroscuro) quanto affetti da una strana forma di nichilismo che li porta a respingere quei loro stessi involucri di carne in attesa quasi spasmodica di una definitiva dipartita. Le corazze progettate dal dottor Ahmad allora diventano il simbolo di qualcosa che vuole mostrarci come il corpo sia effettivamente inadeguato, ma sia anche l’unica possibilità che abbiamo per dare una vita concreta alla nostra anima. Un’anima che non è detto contenga sempre il bene del mondo, ma che è l’unica ragione per la quale vale la pena di esistere. E sì, l’amore, come sempre, se non proprio da tutte le insidie, comunque ci salverà.