La morte corre sui social
Potrebbe quasi essere un episodio autonomo di Atlanta, dilatato fino a diventare una miniserie, Sciame (Swarm in originale). Perché la nuova fatica di Donald Glover, assieme alla sodale Janine Nabers, condivide con il suo predecessore l’universo tematico, l’approccio politico e la stessa capacità di saper intercettare questioni urgenti e decisamente attuali.
A cambiare, casomai, in questa nuova serie distribuita da Prime Video, è il punto di vista. Qui quello straniante e marginale di una novella serial killer, pretesto “di genere” per gettare uno sguardo inedito sulla tossicità dei fandom ai tempi dei social network.
È quindi l’altro lato dello show business, del rapporto con la celebrità e con l’icona, con ciò che riteniamo vero o meno, a finire questa volta sotto lo sguardo attento e spietato di Glover. Un lato oscuro che riflette la cattiva coscienza di un sistema condannato a generare continuamente e inevitabilmente mostri. A farne le spese è Dre (Dominique Fishback), ragazza afroamericana e sociopatica con due sole certezze: l’amore per la sorella Marissa e l’adorazione per la popstar Ni’jah. Quando la prima si toglie la vita, Dre, per non soccombere ai sensi di colpa, decide di assecondare completamente la propria ossessione compulsiva, dando inizio a un viaggio on the road fatto di morte e vendetta. Sì, perché è un distorto e malato senso di giustizia quello che muove la mano omicida della protagonista di Sciame, membro di uno zoccolo duro di fan (“lo sciame”, appunto) pronti a farla pagare a chiunque infanghi pubblicamente la loro beniamina. Prendendo alla lettera la sua missione, Dre comincia così a uccidere coloro che hanno insultato sui social “l’ape regina” Ni’jah (ogni riferimento a Beyoncé è del tutto intenzionale), in un crescendo splatter che scava, ancora una volta, nel ventre molle della società statunitense. Impossibile, del resto, non vedere nella parabola di questa Maniac in erba il riflesso di un sistema che lascia indietro i suoi elementi più fragili e deboli, relegando nelle retrovie una comunità nera a cui sono concessi solo gli scarti (quel junk food di cui va ghiotta Dre) di un benessere impossibile da raggiungere davvero. È in questa nuova forma di ghettizzazione, in cui gli afroamericani sono emarginati o relegati a ruoli predefiniti (la stessa Ni’jah, imprigionata nel suo ruolo di icona black a uso e consumo del pubblico bianco) che, ci dicono gli autori, va a sgretolarsi il senso stesso del sogno americano. Un teatro grottesco in cui non esistono vinti o vincitori e l’idea stessa di successo veicolata dai social media diventa un tutt’uno con l’insanità mentale.
Incapace di distinguere tra realtà e immaginazione, sangue e bit, è così che Dre finisce irrimediabilmente per perdersi, trasformando la sua follia in un (involontario) atto di ribellione contro il sistema, l’unico modo per smarcarsi da un ruolo sociale predefinito (l’essere l’ultima degli ultimi) e diventare una persona speciale e unica, proprio come l’artista dei suoi sogni.
In un mix di generi che frulla assieme blaxpoitation, mockumentary, horror, satira e thriller, Sciame è la risposta cinica e sofisticata al Dahmer di Ryan Murphy, con il sesto episodio, il migliore, che destruttura e irride la passione tutta attuale per il true crime e il nostro desiderio, altrettanto tossico, di storie vere. Un’invettiva in forma di commedia nera e grottesca contro un mondo dove il lieto fine esiste solo nell’allucinazione (collettiva) e la verità non è che un altro espediente per vendere un sogno che sa di morte.