Frammenti di uno stremato discorso amoroso
La costante ricerca dei fantasmi del passato, muove da sempre la poetica di Pupi Avati, il quale la coltiva con perizia da oltre quarant’anni. Una recherche iniziata nel 1979 con Le strelle nel fosso e, ad oggi, non ancora conclusa.
Il cineasta bolognese, all’interno della sua ricca filmografia, ha sempre alternato incursioni orrorifiche nel cuore di tenebra della campagna padana a incantamenti onirico-sentimentali, attraverso i quali ricostruisce fantasiosamente il proprio passato.
Le jazz band, le gite scolastiche, le cotte giovanili, poi tramutate in amore eterno; tutto l’armamentario da novellistica di provincia immerso in un dècor sospeso tra passato e presente, costituisce l’inconfondibile Avati’s touch. Un tocco leggero e malinconico che non rinuncia quasi mai alla dimensione fantastica e talvolta misterica. In La quattordicesima domenica del tempo ordinario, ritroviamo fin dall’incipit gli ectoplasmi avatiani (le scolarette e il gelataio), ma questa volta, purtroppo, qualcosa si inceppa e l’incantamento poetico, a cui il regista ci aveva abituati, si trasforma in una stucchevole sfilata retrò disperatamente patetica da sfiorare il ridicolo. Molti hanno storto il naso davanti ai precedenti Dante e Lei mi parla ancora, ma li (r)esiste ancora un equilibrio tra la componente più illustrativa dell’autore e quella profondamente autoriflessiva. Il flusso di coscienza avatiano in questo ultimo lavoro funziona invece da stanco automatismo, sui cui poggia una diegesi sfilacciata, quasi un brogliaccio di appunti stantii tirato fuori dal cassetto e assemblato alla carlona. L’eterno femminino angelicato e idealizzato (solo in teoria) dal tipico maschio irresponsabile, torna in una doppia narrazione della coppia protagonista, mettendo in luce, ancora una volta, il binomio giovinezza/vecchiaia: l’idealista e superficiale Marzio insegue, corteggia e infine sposa la bella e indipendente Sandra, proprio la quattordicesima domenica del tempo ordinario (che diventa anche il leitmotiv musicale di Sergio Cammariere riproposto fino allo sfinimento). I due bisticciano, si lasciano, per poi ritrovarsi ormai anziani, ma Marzio non è cambiato pur affogando nella malinconia e nel rimpianto.
Gabriele Lavia e Edwige Fenech (versione agée dei giovani e insipidi Lodo Guenzi e Camilla Ciraolo), mettono tenerezza come superstiti di un cinema estinto e inserito a forza in un impianto narrativo da dramma televisivo di matrice ospedaliera. Tra ricoverati, malati terminali e suicidi, Lavia regala una scena scult quando fomenta una rissa per gelosia e poi scivola a terra battendo la testa, mentre la Fenech mostra appena le gambe senza nemmeno levarsi le calze in attesa di farsi il bagno.
Avati non riesce più a ricomporre i pezzi del suo ormai stremato discorso amoroso, restando prigioniero di un melodramma geriatrico dove lo scorrere del tempo e la paura della morte non possiedono più nessuna dilatazione misteriosa o inquietante. Le poche incursioni nel fantastico (lo spettro del padre) appaiono sbiadite e fuori posto, in un costrutto narrativo in cui si mescolano maldestramente i piani temporali e dove la genuina passione di Pupi nel cesellare bei personaggi, anche all’interno dei suoi film apparentemente più didascalici (il sottostimato Gli amici del bar Margherita), cede il passo a un tratteggio grossolano e stereotipico, in cui etica ed estetica parlano lo stesso sciatto linguaggio. Nemmeno il presunto sarcasmo nei confronti di un certo trash televisivo (già presente nel tiepido La cena per farli conoscere) va a segno e se l’impiego drammatico di Massimo Lopez è assai goffo, l’ennesima esibizione della maschera freak di Sydne Rome mette sgomento.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario pare il capolinea estetico e poetico di Avati e se il suo tempo perduto non è ancora stato definitivamente ritrovato è meglio che si rassegni.. con buona pace di Proust!