Cinema: fantasma estremo del desiderio
Qualsiasi cosa realizzata Enrico Ghezzi non è mai perfettamente aderente al media con cui la produce, che sia un testo, un format televisivo, un file audio, oppure un film.
Gli ultimi giorni dell’umanità (presentato fuori concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ora finalmente distribuito in qualche sala) è un non-film o una “videocosa”, per dirlo con le parole del suo autore, il risultato di anni di sedimentazione di materiale audiovisivo all’interno dell’archivio di Enrico Ghezzi.
Gli ultimi giorni dell’umanità, prende in prestito il titolo da Karl Kraus e come il testo a cui si riferisce si presenta come un magma di immagini senza un inizio né una fine, un limbo audiovisivo irrappresentabile. Il film si apre con la voce dello stesso Ghezzi che dice: “È questo acquario di quello che manca, l’acquario di quello che manca”. Difatti l’opera in questione, risulta il perfetto completamento audiovisivo dell’enorme volume L’acquario di quello che manca, pubblicato da La nave di Teseo due anni fa. Sia il libro che il film (698 pagine l’uno e 200 minuti di durata l’altro) sono il mastodontico compendio del Ghezzi-pensiero, una personalissima e filosofica rilettura del rapporto tra media e umanità, sguardo e immagine, pensiero e parola. Durante il suo scorrere fluviale, questo lavoro di ri-montaggio (realizzato insieme ad Alessandro Gagliardo) verrebbe la tentazione di accostarlo alle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, ma c’è un elemento che ne prende le distanze ed è quello dell’intimità. L’opera video di Godard è un excursus museale e necrofilo sulla storia dell’umanità e su quella del cinema, mentre qui nel suo infinito susseguirsi di estratti di film, interviste, monologhi teatrali, letture e paesaggi naturali, si fa spazio l’intimità domestica del suo autore.
Ghezzi non si accontenta di adorare le ceneri del passato, ma conservando la fiamma viva della techne la fonde alla propria vita privata, facendo del suo vissuto quotidiano un eterno film.
Tra le letture di Kafka e Allan Poe, Straub e Huillet all’Università di Torino e frammenti di L’uomo dagli occhi a raggi X di Roger Corman, vediamo lo stesso Enrico che filma la figlia Aura (in età preadolescenziale) dal buco della serratura del bagno di casa. Ecco il sogno prometeico del cinema per Ghezzi, in cui vita vera e immagine registrata non hanno nessuna differenza.
Da questo farsi occhio voyeuristico che deve registrare ogni momento per farne una possibile visione di cinema, eccolo accompagnare teneramente sotto la pioggia la figlia Aura (in età scolare) verso la scuola. Ghezzi concede lo spazio ai sentimenti all’interno del suo film, uno sguardo-gioco verso l’infanzia e la natura che ricorda il Piavoli di Voci nel tempo, ma pur aprendosi a questi varchi di affettuosa video-riflessione domestica (i bisticci con il piccolo Adelchi che non vuole dormire), non dimentica mai la densità filosofica delle immagini. I vulcani che eruttano, richiamano immediatamente Il cinematografo visto dall’Etna di Epstein e la sua teoria sulla fotogenia, la massima espressione della potenza teorica e cinematica della settima arte.
Ghezzi con Gli ultimi giorni dell’umanità, supera persino la rivoluzionaria riflessione pre-blob sulle immagini, realizzata da Grifi e Baruchello con La verifica incerta (1965), raggiungendo il desiderio estremo di incarnarsi nel fantasma stesso del cinema, diventando così al contempo soggetto guardante e soggetto guardato.