L’Uomo Nero si fa carne
C’è una scena, in John Wick 4 di Chad Stahelski, in cui Keanu Reeves è in una discoteca di Berlino, alle prese con un temibile membro della Gran Tavola e con i suoi scagnozzi. Tutto da manuale, tutto già visto, certo, eppure qualcosa non torna. Mentre lo scontro tra John e i suoi nemici infuria, infatti, gli avventori sembrano non accorgersi di nulla, continuando a ballare al ritmo della consueta e martellante musica techno.
Non la scena più memorabile o teorica tra quelle che caratterizzano questo quarto, sorprendente capitolo, intendiamoci, ma sicuramente la migliore per riassumere, in maniera semplice e immediata, ciò che la saga di John Wick è definitivamente diventata. Una danza, un balletto continuo in cui le coreografie dell’action si confondono col musical e l’uso dei corpi nello spazio si fa prossimo alla performance artistica, confondendo tra loro ballerini e stuntman, danza e violenza.
Proseguendo la parabola votata all’eccesso – maggiore durata, maggiore sospensione dell’incredulità, sempre più alto grado di complessità delle scene d’azione – dei film precedenti, John Wick 4 raggiunge così il punto di non ritorno della sua estetica action. Un cinema portato al massimo livello di prossimità con l’esperienza videoludica, uno sparatutto che fa regredire il film al suo grado zero, riducendolo a puro, frenetico movimento dove tutto il resto è stereotipo ai limiti dell’auto-parodia (la scena, esemplare, della scalinata). Una pura astrazione che però, nella sua essenzialità, sa ancora mettere al centro del suo discorso il corpo attoriale, con la consistenza, il peso specifico e la sofferenza che gli si confà. In un mondo sotterraneo e dantesco che scorre parallelo al nostro, fatto di regole ferree e di livelli videoludici in cui ogni scelta da vita a un nuovo scontro con nuovi spazi e nuove sfide dove testare le proprie abilità, va così in scena la lotta senza quartiere di un personaggio che è ormai l’avatar di un videogame, con tanto di “level up” a ogni capitolo completato con successo, ma che, nonostante tutto, non cede mai completamente al suo destino digitale e sintetico, ancorato com’è a una realtà fisica e “analogica” che fa della sua parabola non solo un tour de force adrenalinico ma anche un calvario. Due ore e quarantanove minuti di estenuanti inseguimenti, sparatorie, scontri all’arma bianca che non trasformano, quindi, il cinema in qualcos’altro ma anzi, paradossalmente, gli restituiscono corporeità (gli effetti analogici, gli stunt sempre più precisi e inventivi). Del resto, suggestioni videoludiche a parte, sono proprio il cinema e i suoi autori a regalare a John Wick 4 le sue migliori intuizioni e i suoi punti fermi di riferimento. Dal Walter Hill di Driver l’imprendibile e, soprattutto, de I guerrieri della notte (citato esplicitamente durante la fuga di John a Parigi), all’estetica neo(n) noir di Refn passando per Matrix (John e il Re di Lawrence Fishburne ancora una volta insieme contro il Sistema), fino alla lezione del western e, ovviamente, dell’action, da quello hongkonghese a quello di ultima generazione (The Raid in primis), il film di Stahelski è un mix di riferimenti mai gratuiti e sempre funzionali, giocati costantemente attorno al senso dell’immagine in movimento e a ciò che con essa, nel blockbuster contemporaneo, si può ancora fare e sperimentare.
Quello che ne esce è un film fatto quasi esclusivamente di scene madri, dalla bellissima e articolata sequenza in Giappone al già citato scontro sulla scalinata di Montmartre, apice e messa in abisso di una saga e di un intero genere. Un mondo popolato da personaggi immediatamente iconici (il sicario non vedente di Donnie Yen, il boss sovrappeso di Scott Atkins), essenziali nella loro psicologia ma mai bidimensionali, riflesso di un cinema fatto, sì, di immagini (e immaginari) di seconda mano, icone abusate, déjà vu infiniti, ma che sa ancora sorprendere e meravigliare chi lo sa guardare.