Una spettacolare e ininterrotta ripresa dall’alto della città di Milano ci offre una visuale privilegiata del fermento notturno che anima la metropoli lombarda, chiarendo sin da subito quanto il contesto urbano sarà il grande protagonista di L’ultima notte di Amore, terzo film diretto da Andrea Di Stefano, ma il primo girato in Italia dopo Escobar e The Informer, realizzati negli Stati Uniti.
Tale sequenza d’apertura, accompagnata da una colonna sonora che mescola sonorità elettroniche a respiri affannati, contribuendo quindi alla costruzione di un’atmosfera ansiogena, ci conduce poi, quasi ricordando le prime immagini di Psycho, all’interno dell’abitazione di Franco Amore, interpretato da Pierfrancesco Favino.
Per lui, qui, è stata organizzata una festa a sorpresa, in occasione della sua ultima notte come poliziotto prima dell’agognato pensionamento. Una notte che, però, non è come Amore se l’era immaginata. Mentre tutti lo aspettano per festeggiare, lui, che non è il poliziotto fedele alla legge che tutti credono, è impegnato a fare da autista a un carico speciale affidatogli da un gruppo di criminali cinesi. Un compito apparentemente privo di rischi che, naturalmente, prende ben presto una brutta piega, costringendo Amore a tradire i propri ideali pur di provare a uscirne vivo. Con L’ultima notte di Amore, Di Stefano, sceneggiatore e regista del film, riporta dunque in Italia quanto appreso negli Stati Uniti sul genere noir e sull’utilizzo che dell’ambiente urbano si fa nelle pellicole degli anni Settanta e Ottanta. Ma i riferimenti culturali non finiscono qui, poiché più che essere un noir, il film si iscrive al cosiddetto polar francese, in cui i cui protagonisti appartengono alle forze dell’ordine, muovendosi sul confine tra bene e male, tra legalità e crimine. Allo stesso tempo, tali influenze vengono da Di Stefano messe in rapporto con la vecchia scuola dei polizieschi italiani, facendo così arrivare al cinema un puro film di genere abitato da molteplici anime, sfumature e tendenze. Resta di base un’atmosfera cupa, che trova specialmente nella seconda metà del film il suo massimo compimento. Se la prima ora ha infatti la funzione di lungo flashback, per presentare quanto avvenuto antecedentemente alla scena d’apertura, è dalla seconda ora in poi, ovvero da quando ci si concentra sull’incidente che stravolge la notte di Amore, che si entra nel vivo del racconto. Una lunga preparazione, dunque, non esente da momenti di stanca, dopo la quale si viene ricompensati arrivando a ciò che a Di Stefano realmente preme raccontare e mostrare.
Da qui tutto si svolge sotto al cavalcavia stradale dove le cose hanno iniziato a prendere una brutta piega. Un’unità di luogo che porta il regista a doversi concentrare su numerosi dettagli, personaggi, sospetti, così da costruire quella tensione a dir poco imprescindibile per il tipo di opera che L’ultima notte di Amore vuole essere. E l’obiettivo viene raggiunto, grazie all’attenzione con cui Di Stefano porta avanti le molteplici linee narrative, dalla volontà del protagonista di individuare chi lo ha tradito fino alla necessità di recuperare per tempo quanto smarrito.
Una lunga scena che si svolge in un unico luogo, certo ma con tutti gli stimoli e le distrazioni di un ambiente esterno, che il regista riesce ad intercettare e riutilizzare come elemento forse decisivo nella risoluzione del caso o forse depistante nei confronti di esso. La tensione che ne deriva, prima di essere gettata addosso allo spettatore, passa però ovviamente sui corpi di Favino e Linda Caridi, straordinari protagonisti del film. Seguendoli nel loro incubo notturno, si attraversa così una delle opere italiane di genere più affascinanti viste negli ultimi anni, merito in particolare del gusto per la messa in scena che Di Stefano continua a dimostrare di possedere.