Basta! Ci faccio un film
L’idea di sviluppare un film che ruota attorno alla presunta o reale impasse dell’autore che lo mette in scena, non è certamente un’idea originale. Partendo dall’archetipico 8 ½ di Fellini, fino ad arrivare ai più recenti Glory to the Filmmaker! di Takeshi Kitano, The Disaster Artist di James Franco e al prossimo in uscita Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti (almeno come si preannuncia dal trailer), molti registi quando attraversano un momento di crisi creativa decidono di rielaborarla facendoci un film.
Anche Gabriele Salvatores con Il ritorno di Casanova decide di rappresentare la difficoltosa gestazione di un nuovo progetto cinematografico, ne esce un’operazione didascalica e stanca, ma che sottotraccia elabora un discorso più profondo sul tema della crisi artistica e personale.
Dopo il sottostimato Comedians (auto-remake incarognito di Kamikazen), Salvatores prosegue il lavoro di dissoluzione delle maschere comiche della sua generazione, illividendo maggiormente i toni già poco rassicuranti del precedente film. Se Comedians era una sorta di esperimento autorilfessivo sulla scrittura cabarettistica (in cui il cinema si teatralizzava), Il ritorno di Casanova è un film doppio, due racconti che procedono in parallelo alternando la grigia realtà di un regista depresso (un Servillo ottimamente spoglio e depotenziato) e la sua ultima opera cinematografica (liberamente ispirata al romanzo di Arthur Schnitzler) durante il suo farsi, in cui il regista Servillo riflette sé stesso nella figura decadente del noto libertino (Bentivoglio grottesco e dolente). Tutto il film procede su questo ritmo binario, dove la realtà è illuminata da un bianconero tetro e metallico, mentre la finzione cinematografica viene espressa con tonalità sature che accentuano il maquillage esasperato dei personaggi, quasi come in un film in costume di Peter Greenaway. Preso nella sua globalità il film mostra sicuramente cedimenti e incertezze, dove sbrindellati intellettualismi e riflessioni monomaniache ne fanno un manifesto egoico, masturbatorio e museale. Ma se la forsennata rincorsa di Salvatores all’autocommemorazione suona come un limite stilistico e un’ovvietà contenutistica, Il ritorno di Casanova è indubbiamente curioso come possibile postilla al cinema del suo autore. Bentivoglio, Balasso e persino Ale e Franz (già nobilitati in Comedians) rappresentano i fantasmi di un passato che non torna e con cui fa i conti tanto Salvatores quanto il suo alter ego Servillo.
Il ritorno di Casanova è a tutti gli effetti un doppio sogno (nel senso pienamente psicanalitico), che si muove tra onirismi felliniani e momenti puramente slapstick alla Tati (la tecnologia che si ribella), ma seguendo anche le coordinate di una ronde comico-romantica che può ricordare Etaix.
Ben tredici anni dopo Happy Family, Salvatores torna a fare un film sospeso tra realtà e scrittura, testo e metatesto, un’operazione goffa, cerebrale, a tratti quasi pedante nel ribadire la dicotomia tra vita e arte, ma in parte anche tenera e seducente proprio per questo senso di fumosità che la avvolge, denunciando la fase terminale del proprio autore. Finale aperto, in cui il cineasta interpretato da Servillo deve scegliere tra la redenzione di un nuovo amore e la propria dannazione artistica.