Comprendere e spiegare
Identità, tradizioni, famiglia sono alcune delle cose che chi è lontano dal proprio Paese sa che prima o poi mancheranno nel percorso di vita. Anita Mathal Hopland, in Moosa Lane, presentato al Pordenone Docs Fest, ci racconta ciò attraverso un documentario che sfiora l’allegoria mantenendo, però, uno sguardo concreto e leale.
Moosa Lane è il nome della via in cui abita una parte della famiglia della regista a Karachi, capitale economica del Pakistan da cui parte il girato di quindi anni che viene alternato alle riprese ambientate a Copenaghen in cui Anita vive con altri suoi famigliari.
La sua è una continua lotta tra cercare di comprendere tradizioni e rituali che, forse, non le appartengono più e la voglia di emanciparsi da esse. Lei è nata in Danimarca ma non rinnega le sue radici, anzi decide di filmare la sua visita al paese natio per registrare come un individuo venga fisicamente e mentalmente plasmato dal suo vissuto e dalle sue origini. Accompagna il girato con voce pacata e per nulla didascalica per spiegare/si ciò che vediamo e ci porta per mano in un viaggio attraverso la potenza e la sincerità delle immagini. Si parte da una mucca uccisa in strada, davanti a bambini e persone di passaggio, che deve essere accuratamente divisa tra la famiglia e i vicini meno fortunati. Come quell’animale è costretto a diventare un “aiuto” per gli altri, così Anita si ritrova ad aiutare la sua famiglia che non comprende lo stile di vita del mondo occidentale. A Karachi c’è ancora chi si sposa senza conoscersi – il matrimonio combinato della sorella maggiore Saima – perché “si fa così” e l’amore prima o poi nascerà; in Danimarca invece si beve birra al parco e si vive la propria vita senza obblighi precisi. Seguiamo poi Zayn un altro giovane che aspira a studiare e viaggiare per il mondo, ma dovrà affrontare un destino avverso.
Non è scontato ripetere che Hopland mostri soprattutto vicende di giovani: sono loro sia la speranza del cambiamento che quelli in cui è più evidente la pressione e le costrizioni imposte dalla tradizione. Sembra una banalità ma spesso ci si dimentica che una cultura necessita di essere studiata e poi, casomai, essere corretta nei suoi retaggi: le sequenze in Pakistan dimostrano il senso profondo di comunità e la semplicità della vita di tutti i giorni ma anche la limitata libertà di agire senza scontentare qualcuno; quelle a Copenaghen, invece, documentano come l’emancipazione e il progresso, a volte, creino poca profondità. Distanze mentali e geografiche che diventano enormi con il passare degli anni, ma che Anita non giudica mai perché si rende conto che la sua missione è solo quella di verificare e documentare, insieme allo spettatore, quali siano i giusti confini. Rimangono gli occhi speranzosi di una generazione, di entrambi i Paesi, che vorrebbe spezzare vecchi legami per avviarne altri migliori. In Moosa Lane, Anita è la loro voce che invoca amore e comprensione.