Uno sguardo rivelatore
Rendere dolorosamente visibile l’invisibile, manifesto quello che doveva restare nascosto. È stata questa la missione di Caesar, nome in codice del disertore siriano che nel 2013 riuscì a far uscire clandestinamente dai confini del suo paese più di 27.000 fotografie di detenuti civili torturati a morte dal regime di Bashar al-Assad.
Una repressione di proporzioni inaudite, quella nei confronti degli oppositori di un governo sordo a qualsiasi richiesta di cambiamento, destinata a non essere vista in tutta la sua crudeltà se non fosse stato anche per il coraggio di Caesar e per quel file.
Sono i volti e i corpi martoriati contenuti al suo interno, la scintilla che dà vita al viaggio alla base di The Lost Souls Of Syria. In quelle migliaia di immagini di persone torturate e uccise che Caesar – fotografo per la polizia militare di Damasco chiamato a tener traccia di ogni singolo corpo uscito dalle prigioni del regime – porta con sé fuori dal paese c’è infatti già tutto il dolore, la rabbia e l’indignazione che caratterizzeranno la lotta per la giustizia e la verità al centro del documentario. «Prove anche più schiaccianti di quelle che si avevano contro i nazisti a Norimberga», viene detto a più riprese a proposito del contenuto del file di Caesar. Immagini che sono già un atto d’accusa, dunque. Migliaia di corpi e volti su cui la macchina da presa si sofferma appena ma la cui presenza si fa sentire e aleggia come uno spettro su tutto il film, scuotendo gli animi e le coscienze. Eppure, è proprio a questo punto che le cose si fanno paradossalmente più complesse. Nonostante l’evidenza, nonostante la presenza ingombrante di quei fantasmi, il Consiglio di sicurezza dell’ONU – complice il voto contrario di Cina e Russia – non potrà prendere alcun provvedimento in merito e, come se non bastasse, diverse corti di giustizia europee si dimostreranno riluttanti a intraprendere azioni legali contro il regime siriano.
Non sorprende allora che, a questo punto, a diventare protagonisti siano proprio i volti e i corpi di chi resta, di tutte le vite che ruotano attorno a quelle foto, da Caesar stesso agli avvocati per i diritti civili, dai parenti delle vittime a chi di quella violenza porta ancora addosso i segni. Lontano da ogni morbosità o facile pietismo, il documentario di Malterre e Le Caisne mette così al centro lo strenuo lavoro fatto da donne e uomini per trasformare quelle foto in un atto d’accusa ufficiale, nella prova inconfutabile e definitiva della disumanità di un intero sistema. Per farlo i due registi alternano le testimonianze di esuli e parenti al lavoro titanico sulle fonti fatto da avvocati e associazioni umanitarie, l’identificazione di migliaia e migliaia di volti agli sforzi per vedere finalmente riconosciuti quei crimini. The Lost Souls of Syria si fa così non solo testimonianza ma parte di un processo volto a ristabilire giustizia e verità. Una ricerca che non vuole solamente dare un volto alle vittime, ma anche a esecutori e mandanti, inoltrandosi negli ingranaggi di un potere repressivo che non conosce pietà.
Seguendo storie parallele ma unite dallo stesso desiderio di giustizia, tra lingue e paesi differenti, i registi costruiscono così un viaggio dove la macchina da presa si mette all’altezza del suo oggetto, intercettando la disperazione dei parenti e la determinazioni di legali e associazioni. Il risultato è un film che, senza cedere a schematismi risaputi, lontano tanto dal meccanismo delle cosiddette “teste parlanti” quanto da un re-enactment incontrollato, fa dell’evidenza e della ricerca sul campo il suo obiettivo primario. Un percorso che tiene conto dell’umanità che osserva e, con rispetto e misura, cerca di ridare simbolicamente vita a quelle anime perse e dimenticate, restituendo loro, attraverso il suo sguardo, quell’identità che per troppo tempo gli era stata negata.