Un vitale laboratorio
Per chi non la conoscesse, la serie Dylan Dog Color Fest è una collana extra, a cura di Roberto Recchioni, caratterizzata dall’uso del colore (rispetto alla serie classica, che invece, come tutti sappiamo, è in bianco e nero) e dal coinvolgimento, nella realizzazione delle storie, di autori differenti che non hanno (o quasi) mai avuto direttamente a che fare con l’ormai famosissimo indagatore dell’incubo.
Il caso de Il verme bianco, numero 44 di questa serie speciale è davvero peculiare: è la prima storia lunga interamente realizzata da un unico autore, Marco Galli (che già era apparso sul numero 16, ma solo con una storia breve), che appunto cura copertina, soggetto, sceneggiatura, disegni e colori.
In un certo modo l’operazione Color Fest è stata portata avanti per permettere al personaggio Dylan Dog di rinnovare se stesso, sia attraverso la forma sia attraverso il contenuto. Posso dire che, spilluzzicando qualche numero qua e là (ammetto di non averli letti tutti, ma solo una manciata), il progetto pare abbia portato effettivamente una ventata d’aria fresca: potrete trovare nel catalogo di Bonelli tutti i nomi che hanno fino ad oggi collaborato a questa collana e vi assicuro che ce ne sono di assai interessanti. Tornando a questo ultimo numero, invece, quello che ci interessa è che è un lavoro con tutte le carte in regola per essere tra i più interessanti dell’intero lotto: la storia, il giallo, il mistero, l’azione sono ciò che viene messo in primo piano da Galli. Qui Dylan è quasi trasparente, si adagia anche formalmente alla pagina, in molte vignette è composto degli stessi colori dell’ambiente circostante e non è solo un gioco di effetti, di ombre o di chiaroscuri. È un modo per dirci che, negli eventi narrati, l’indagatore dell’occulto è una pedina come tutte le altre. Non che non sia mai avvenuto in passato – anche considerando unicamente la serie “regolare” – ma il fatto è che in questo caso si denota grazie all’omogeneità del tratto e degli intenti dell’autore. La vicenda del verme bianco è pregna di riferimenti ad altre opere, citazioni evidenti che provengono dal cinema horror anni Ottanta, ma anche riprese sfumate degli stereotipi dylandoghiani. Quello che intriga è però l’assoluto controllo di quello che è un singolo pilota al comando: Galli fa di tutto per fagocitare l’essenza del personaggio bonelliano, risputandolo fuori con dei tratti che sono quelli tipici della sua arte. Il detective di Dentro una scatola di latta, altro lavoro di Galli, ricorda caratterialmente questo Dylan Dog e ciò basta a farci capire che l’operazione di appropriazione autoriale è perfettamente riuscita. Al di là della storia, al di là della dimensione estetica – tutte e due affascinanti anche se non travolgenti – quello che importa è una cosa sola: Color Fest è un vitale e sano laboratorio, all’interno del quale si può sperimentare, restando ancorati alla tradizione. Sarebbe bello seguissero questo insegnamento anche altre serie, per poter così in piccola parte innovare e sempre di più rinnovarsi.