Edith or Eddy
Sono passati settant’anni da Glen or Glenda, il film seminale di Ed Wood Jr. del 1953, bellissimo e/o terribile, tristemente definito dai fratelli Medved “il peggior regista del mondo”, un bollino poi sbriciolato in sede di culto.
Ed Wood amava vestirsi da donna e per primo portò sullo schermo un uomo che si traveste, interpretato proprio da lui stesso: un titolo pioniere in quella storia parallela del cinema che poi si chiamerà queer. In una sezione importante del film troviamo un medico che discute su cos’è un uomo travestito da donna, se si tratta di una patologia e si può guarire. Oggi, passati quasi tre quarti di secolo, ancora non è chiara la differenza tra un travestito, una trans, una donna che avvia una transizione per diventare uomo.
Ecco perché, nell’alveo del cinema LGBTQ+, serve anche un titolo commerciale come Un uomo felice di Tristan Séguéla. “Preferirei che mia moglie diventasse una giraffa”. Una frase che riassume il profondo pregiudizio di Jean, sindaco conservatore di una piccola città francese, dopo la notizia che la coniuge Edith avvierà la transizione per diventare uomo. Si chiamerà Eddy. È il congegno alla base della commedia francese nelle sale italiane dal 9 marzo, casualmente – o no? – appena dopo l’8 marzo, la giornata della donna che qui nella sua autodeterminazione rivendica il diritto di essere chi vuole, anche un uomo. Dopo il successo di Chiamate un dottore! nel 2019, che meritò un remake con Abatantuono, titolo leggero e tutto sommato innocuo, Séguéla si lancia nell’agone del nuovo cinema LGBTQ+ riscrivendolo in carattere popolare: per questo Un homme heureaux è un titolo che mancava. Il film punta molto sull’interpretazione forte di Fabrice Luchini, già primo cittadino in Alice e il sindaco (ma lì la questione era tutta politica e perfino filosofica) e di una magnifica Catherine Frot, attrice sottovalutata forse per la storica levità dei suoi ruoli.
La “svolta” della donna getta scompiglio nella vita del marito, che vuole ricandidarsi, a due livelli: quello politico, perché il conservatore è destinato a perdere voti a causa della moglie “contronatura”, e il lato intimo che risulta funestato dall’annuncio (si può ancora fare sesso con una donna che assume ormoni, alla quale crescono i baffi?). In più significativamente siamo nella provincia, un piccolo centro che metaforizza un certo tipo di arretratezza, ma corre il sospetto che Parigi non sia molto diversa (come Roma, Milano…): la transizione da donna a uomo suona inaccettabile, perché non si riesce a capire. La tua libertà finisce appena disturba il mio pregiudizio. Sullo sfondo non va poi trascurato l’aspetto mediatico, che adesso si traduce naturalmente nel potere dei social network. Se Jean è un tipo vecchio stampo, pre-moderno, contrario a Facebook e Twitter e abituato a una rete sociale fatta di incontri dal vivo, molto diversa è Edith/Eddy che sceglierà proprio una story su Instagram per sbloccare la situazione. Il regista conduce il gioco attraverso una grammatica cinematografica lineare, leggibile, senza voli pindarici, sappiamo già come andrà a finire, l’uomo felice del titolo se possibile saranno entrambi, ma tutto ciò non smorza la riuscita.
Il cinema LGBTQ+ è un genere che talvolta tende un po’ a ripetersi, portando a prevalere la forza del tema sulla sua messinscena, basta farsi un giro in alcuni festival per rendersi conto (generalizzando: il film queer è spesso a tesi). Ecco allora l’importanza di Un uomo felice che, tra le altre cose, offre una parentesi didattica ma non didascalica anzi semplice e precisa: la sequenza del gruppo di ascolto, che fa chiarezza nella selva di definizioni, nella ridda di etichette, spiegando chi è una donna che diventa uomo forse anche alla diretta interessata. Un esercizio di esattezza di cui, tutto sommato, c’è ancora bisogno.