Una fiaba neo(n)-noir
Chi è realmente la misteriosa Miu (Angela Bundalovic), “moneta portafortuna” contesa tra sfruttatori slavi, mafiosi cinesi, avvocati malavitosi e serial killer? Una strega, come dicono quelli che hanno avuto la sventura di contrariarla, o una (super)eroina pronta a riscattare le sue compagne di sventura da un mondo maschile dominato da una violenza cieca e animalesca?
È una figura spettrale quella che attraversa la nuova opera di Nicolas Winding Refn, Copenaghen Cowboy. Un fantasma, un’anomalia narrativa che, assecondando lo sguardo del suo autore, percorre la serie come fosse una galleria d’arte, tra quadri composti dai generi e dalle suggestioni cui da sempre il cinema del regista danese si è nutrito.
Dopo l’estenuante e affascinante esperimento di Too Old To Die Young Refn torna alla serialità senza correggere il tiro ma gettandosi piuttosto in un’operazione che per certi versi è la radicalizzazione ulteriore di quel progetto. Niente dunque a che vedere con un ritorno a casa cui il titolo pur sembrava alludere. Nessuna reale riproposizione di quella Danimarca fotografata con ritmo febbrile nella trilogia di Pusher. Piuttosto, uno sguardo trasfigurato su quel mondo attraverso l’esperienza maturata fuori dai suoi confini. Un trionfo lisergico e dilatato che, in un’operazione a metà strada tra cinema sperimentale, arte contemporanea e servizio di moda, è summa (o sberleffo) di un immaginario già dato per codificato. Copenaghen Cowboy non è allora un ritorno al passato (citato esplicitamente da personaggi come quello dello Zlatko Burić di Pusher), ma una ri-visitazione fantasmatica di quei luoghi da parte di un cinema altro, che rifugge definitivamente il reale, abbracciando la pura forma, il puro gesto. È qui, tra quadri curatissimi ed evocativi, giochi cromatici e coreografie a metà strada tra il balletto e l’incontro di kung-fu, che le ossessioni e lo sguardo del regista raggiungono la loro forma più compiuta e definitiva, in un’astrattezza mai sperimentata prima. A partire da movimenti di macchina sempre più essenziali (la camera spesso fissa o mossa sul suo asse in panoramiche avvolgenti) fino ai vezzi divenuti oramai veri e propri marchi di fabbrica da esibire sfacciatamente (le luci al neon, i synth anni 80, le tute sportive, i dialoghi scarni, le minoranze etniche stereotipate, la violenza cieca), sembra che il regista, divenuto nel frattempo marchio esso stesso (NWR), prosciughi ulteriormente il suo cinema – e i generi cui rimanda: dal revenge al gangster movie, dal thriller al cinema di arti marziali, passando anche per la fiaba – per farlo deflagrare in un trionfo estetico abbagliante.
Tutto è esibito, in Copenaghen Cowboy. Tutto è apparenza sfacciata e involgarita. Tutto è superficie. Niente di nuovo, certo, per chi è avvezzo alle derive estetiche ed espressive con cui l’autore di The Neon Demon ha rivestito il suo cinema negli ultimi anni. Ma è una superficie, questa, che nella sua essenzialità tematica e simbolica (Il Bene e il Male, l’Amore e la Morte, Il Blu e il Rosso) sa farsi narrazione, proponendo una via di uscita dall’impasse di un’operazione a prima vista autoreferenziale. La novità di Copenaghen Cowboy è infatti quella di aver introdotto, all’interno di quel mondo maschile e grufolante (letteralmente), dove la violenza è sempre vissuta come ineluttabile, un femminile “trascendente” basato sulla solidarietà reciproca. «Lei è tante», viene detto di Miu in un ultimo episodio che amplifica la portata soprannaturale della vicenda virando verso soluzioni inedite e imprevedibili (fino al criptico cameo dell’amico Hideo Kojima e all’apertura a una possibile seconda stagione). Un’eroina che si fa così, più che “alter ego” dell’autore, espressione di un femmineo visto inevitabilmente come alieno o ultraterreno, fuori dagli schemi (anche narrativi) di un universo divenuto estremamente gretto e prevedibile.