Ballando al buio
C’è una scena che si inserisce come inserto ricorrente tra le pieghe di Aftersun, non è chiaro se sia un flash forward o un sogno: in una discoteca buia, illuminata da fulminei lampi stroboscopici, vediamo una ragazza che balla, intuiamo un controcampo, un uomo di fronte a lei che col tempo intuiamo essere il padre. Anche lui balla, ma nel suo corpo percepiamo una sorta di quieta disperazione. Non sappiamo se quella scena sia accaduta davvero oppure, come sospettiamo dall’ultima ripetizione in cui si vede il viso della ragazza da piccola, sia un’elaborazione onirica, ma quell’immagine ripetuta è l’indice di un disagio che il film più che mostra suggerisce e metabolizza.
È il disagio di Calum (Paul Mescal), un padre che sul finire degli anni ’90 è in vacanza con la figlia Sophie (Francesca Corio) in un villaggio vacanze in Turchia. Un disagio che il film – primo lungometraggio di Charlotte Wells, scritto dalla stessa regista a partire da suoi ricordi ed emozioni personali – non mette mai al centro del racconto, non ne fa materia di racconto sensazionale ma indica nei frammenti tra una scena e l’altra, suggerisce senza rendere comprensibile fino in fondo perché così facendo permette allo spettatore di aderire al punto di vista della ragazzina. La cornice infatti è quella dei video che Sophie e il padre hanno girato in quella vacanza e che la ragazza anni dopo guarda per cercare di comprendere il padre, la sua ritrosia a essere al centro dell’attenzione, le sue sparizioni improvvise: un malessere che Wells fa emergere magistralmente a margine del racconto minimale tanto che poco a poco diventa il vero nucleo della ricerca emotiva della protagonista e del film. In questo mistero affettivo però Wells non dimentica mai l’affetto verso il padre, l’intimità che si crea nei piccoli gesti, nella quotidianità delle loro azioni e lavora di cesello sugli attori, scrive il film a partire dai loro corpi e dai loro volti, che rendono visibile il non detto dello script.
La regista lavora di fino anche con il montaggio di Blair McClendon, gli stacchi e le dissolvenze comunicano alla percezione di chi guarda più di quanto la sceneggiatura non voglia dire, perché Aftersun è un film di percezioni più che di visioni, in cui le immagini, i suoni (Tender dei Blur si affaccia come distorta all’orecchio di Sophie; Under Pressure di Queen e David Bowie perde la musica per lasciar fluire solo le parole) e il modo in cui si legano gli uni agli altri restituiscono il mondo personale e del tutto soggettivo di Sophie, sono le sue soggettive a scandire il percorso del film, le sue osservazioni che di quando in quando si aprono, come detto, a inserti inquieti (il padre che piange senza motivo o che balla solo o che si muove sul parapetto del balcone). Un esordio di grande finezza registica e descrittiva, che riesce a rendere in modo vivo il complesso grumo di emozioni contrastanti che è il rapporto tra un padre e una figlia.