I volti della giustizia
“Siamo responsabili di creare una pace basata non sull’oblio, ma sulla memoria” – dice Julio César Strassera nell’arringa finale di Argentina, 1985. E il ruolo della memoria è sempre più delicato e prezioso nella società contemporanea, soprattutto adesso che gli eventi del Novecento si allontanano nel tempo (perdendo i propri testimoni e divenendo “storia passata”) e che i corsi e i ricorsi storici sembrano alternarsi con minor soluzione di continuità.
Santiago Mitre riporta alla luce una delle pagine più importanti e dolorose dell’Argentina del secolo scorso: la dittatura militare instauratasi tra il 1976 e il 1983 a seguito di un colpo di stato. Lo fa raccontando il processo alla Giunta Militare che si tenne nel 1985, sotto il governo del presidente democraticamente eletto Raúl Ricardo Alfonsín, nel quale furono indagati i nove generali (tra cui Jorge Videla) responsabili di quegli anni di terrore e violenza, tra torture, omicidi, repressione e migliaia di dissidenti, o sospettati tali, scomparsi nel nulla (i Desaparecidos).
La ferrea sceneggiatura di Mitre, scritta insieme a Mariano Llinás (l’autore di La Flor), affronta uno dei momenti fondamentali nella vita di uno stato, ovvero la formazione della democrazia. Uno snodo che passa attraverso la risoluzione con cui un Paese fa i conti con il proprio passato, basandosi “non sull’oblio, ma sulla memoria” e affrontando i propri demoni senza lasciarli fuggire. Proprio per questo il processo del 1985 fu il più significativo per l’Argentina e “il secondo per importanza dopo Norimberga”. Ciò che è mancato all’Italia. Argentina, 1985 ruota attorno al procuratore Julio Strassera, che ebbe solo pochi mesi di tempo per raccogliere e organizzare prove e testimonianze in una situazione di tensioni e pressioni, aiutato esclusivamente da un gruppo di giovani ragazzi. L’elegante regia di Mitre alterna lo sguardo privato e pubblico della vicenda, osservando i giorni del processo e la quotidianità di Strassera (interpretato da un bravissimo Ricardo Darìn) e dell’assistente procuratore. Un’impostazione all’apparenza classica, ma dal ritmo sapientemente calibrato, in un racconto che non cede alla maniera o alla retorica e cambia vari registri con efficacia. Tra gli sferzanti dialoghi non mancano dei sorprendenti (dato il tema) momenti ironici che alleggeriscono la portata drammatica senza però neutralizzare la gravità del momento storico e del discorso politico. Divagazioni ben dosate che lasciano poi il posto alla tensione e all’emozione, che diventa massima quando la sfera pubblica e privata si incrociano. I nove generali saliti sul banco degli imputati rimangono ai margini del racconto e dell’inquadratura, mostrati brevemente con fugaci carrellate e dissolvenze incrociate. “E il male non aveva un solo volto, ma parecchi, e tutti sfuggenti”, scriveva Stephen King. Un male che si riforma ciclicamente e che si nasconde stratificato in profondità. Mentre un volto lo ha chi testimonia, chi ha subìto quell’atroce violenza e chi lotta per la giustizia e per la democrazia. Il personaggio di Strassera incarna il percorso della collettività nella difesa dei valori democratici, teso tra un trascorso plumbeo da riscattare e la determinazione a combattere le ombre della nazione, nonostante le pressioni e nonostante il passato non sia stato del tutto superato e ricopra ancora un ruolo di potere o socialmente rilevante (l’ex ministro della propaganda diventato un volto televisivo, l’impiegato del comune e il primario dell’ospedale che vengono nominati). È anche in questo che Argentina, 1985 dialoga con il presente esprimendo il ruolo della memoria e ricordando la fragilità della democrazia.