L’amore a settant’anni
Gianni Di Gregorio è sempre stato un autore peculiare all’interno del cinema italiano contemporaneo, soprattutto nel restituire una certa romanità di provincia lontana dal chiasso e dalla grossolanità macchiettistica che continuano ad affollare la nostra commedia. Il suo è un cinema garbato, leggero e acutamente ironico in grado di flirtare con la pochade e il burlesque francesi (per alcuni ispirato a quello di Jacques Tati), ma senza mai abbandonare i luoghi della sua Roma in cui i personaggi, da lui scritti e messi in scena, restano profondamente radicati.
Di Gregorio all’interno dei suoi film (proprio come accadeva per Tati) è sia osservatore che attante di una umanità stralunata, dove la sua fisicità aliena e il suo volto bonario ne fanno una figura malinconica e impermeabile a qualsiasi avversità, tanto sul piano sociale che su quello personale e familiare.
Con Astolfo torna in scena il doppio dell’interprete/autore cui viene cambiato solamente il nome ma è sempre Gianni l’impacciato intellettuale di provincia che abbiamo conosciuto in Pranzo di ferragosto (2008) quando sessantenne guardava con candore alla terza età, ora invece è parte attiva di quel tessuto sociale e ne trae così un racconto tenero e vitale. Gianni/Astolfo è un po’ come il Pignon di Francis Veber (altro modello a cui guarda Di Gregorio), un individuo al di fuori degli schemi, gentile, umile e spesso schiavizzato da una società spersonalizzante alla quale lui oppone una indistruttibile gioia di vivere. Dopo i due suoi lavori più vicini al comico puro in cui si misurava con il sesso femminile (Gianni e le donne, 2011) e con il burocratizzato mondo impiegatizio (Buoni a nulla, 2014), Lontano lontano (2019) appariva come quello più sbilanciato sul versante drammatico-retorico, mentre Astolfo con un colpo di spugna segna una ripartenza, la ri-costruzione di sentimenti quali l’amicizia e l’amore dopo che il protagonista torna al paesello natio senza più nulla. Non mancano le frecciatine satiriche al potere clericale-amministrativo e nemmeno l’affettuosa descrizione comico-poetica del paesino con il quale Astolfo fraternizza e mette a punto una strategia di resilienza per non soccombere all’oppressione delle autorità locali.
Ma Di Gregorio racconta soprattutto quanto è bello l’amore a settant’anni con la complicità di una radiosa Stefania Sandrelli (nonna vedova sfruttata dal figlio e dalla nuora) e lo fa senza sentimentalismi senili ma con il suo solito humor garbato e una profonda voglia di riscoprire il mondo, la natura, l’arte e il cinema (classico) attraverso gli occhi di due giovani/anziani innamorati.
I finali di Colazione da Tiffany (1961) e Pane, amore e fantasia (1953) insieme ai totali campestri che avvolgono la coppia rappresentano il suggello romantico di un’opera che però non si accontenta di concludersi nella prevedibilità dell’happy ending, ma termina con l’inizio di un viaggio. Un finale aperto degno di Truffaut che accompagna dolcemente i protagonisti (insieme al nostro sguardo), verso un fuori campo di invisibile serenità.