Essere gay nel 1988
Nel maggio 1988, il governo conservatore di Margaret Thatcher introdusse la famigerata Section 28 del Local Government Act 1988, che proibiva alle autorità locali nel Regno Unito di “promuovere l’omosessualità”.
È nei giorni tumultuosi dell’approvazione di questa legge che incontriamo Jean (Rosy McEwen), un’insegnante di educazione fisica in una cittadina del nord-est dell’Inghilterra.
Mentre di giorno fa arrampicare adolescenti sul quadro svedese, fuori dall’orario di lavoro ha una vita che tiene scrupolosamente segreta: in breve, è lesbica e sta ancora esplorando timidamente la sua identità. Ma la sua doppia esistenza rischia di collassare quando una nuova alunna si presenta al gay bar locale. La straordinarietà di Blue Jean è nell’ordinario: il film, infatti, non racconta una storia di scoperta o di rivoluzione, ma al contrario parla di una vita come tante e di una donna che cerca di non smuovere le acque, di rimanere inosservata, dividendo la sua esistenza nettamente in due. Attorno a lei, ad ogni modo, il mondo sta andando avanti nonostante tutto: le sue amiche gay vivono la propria omosessualità apertamente, e fanno addirittura parte di un collettivo lesbico; la sua fidanzata Viv (Kerrie Hayes) ha già fatto coming out in tutti gli aspetti della sua vita; la stessa Lois (Lucy Halliday), un’alunna appena quindicenne, cerca una rottura con il mondo omofobo in cui sta crescendo. Se finora forse non esisteva il realismo sociale queer, adesso ce n’è almeno un esempio; la regista Georgia Oakley, alla sua prima prova con un lungometraggio, presenta gli anni ‘80 su pellicola 16mm, cercando di ricreare un effetto visivo simile ai film di trentacinque anni fa piuttosto che cercando di generare un effetto nostalgia.
Oakley ha uno sguardo limpido ed equilibrato: non si tuffa nel melodramma, anche quando la situazione lo giustificherebbe. Mentre la vita di Jean discende lentamente nel caos, la regista (che è anche autrice della sceneggiatura) riesce in qualche modo a bilanciare il fatto che le scelte di Jean possano essere tanto egoiste e dettate dalla paura, e “sbagliate” da un punto di vista moderno, quanto giustificabili per la situazione in cui si trova. Rosy McEwen, con un taglio corto che vuole essere un richiamo a David Bowie, così come al titolo del film, ha la presenza perfetta sia per essere l’insegnante cool a cui le alunne si affezionano, sia una ragazza trendy che si muove con agio nella scena queer, sia una creatura terrorizzata quando le sue scelte la stanno per travolgere a tutta velocità. Ha la capacità di trasformarsi davanti agli occhi dello spettatore, e di risultare sempre incisiva e magnetica. La sua performance è ulteriormente rafforzata da quelle delle comprimarie – in particolare Kerrie Hayes, che porta una sensibilità fuori dal comune alla fidanzata “out and proud” che si scontra con gli ostacoli e il cuore frequentemente spezzato in una relazione con una persona non dichiarata.
Le storie di donne lesbiche sono spesso il rifugio della male gaze più insidiosa, o altrettanto spesso ambientate in un passato distante (Ritratto della giovane in fiamme, Ammonite nell’ultimo paio d’anni): per quanto doloroso, è importante potersi rispecchiare in un passato ancora abbastanza vicino da essere tangibile. Non è difficile rivedere nella vita di Jean la repressione istituzionale concreta che sta tornando alla ribalta ai giorni nostri, tanto all’estero quanto in Italia.
Blue Jean ha già vinto il premio del pubblico delle Giornate degli autori alla Mostra del cinema di Venezia del 2022, ed è in concorso al London Film Festival 2022 nella sezione dedicata alle opere prime.