Una questione ancora aperta
A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, l’Italia fu scossa dalla storia di Aldo Braibanti, intellettuale, artista, scrittore che si circondava, nella sua grande casa nella campagna emiliana conosciuta come “la Torre”, di giovani ragazzi e ragazze in cenacoli culturali che spaziavano dal teatro alla letteratura. Con uno in particolare, Ettore, Braibanti intrecciò una relazione sentimentale che li portò alla fuga insieme verso Roma dove però furono rintracciati dalla famiglia di lui che fece internare il ragazzo in ospedale per “curarlo” attraverso l’elettroshock, e incriminare lui con il reato di plagio.
Nella consapevolezza generale che l’art. 603 dell’allora codice penale, pressoché mai applicato nella realtà dei fatti, era solo un pretesto per mettere sotto accusa l’omosessualità in un periodo storico che addirittura non riconosceva l’esistenza di tendenze sessuali diverse dalla “norma”, suscitando e aprendo così un dibattito politico sui diritti umani.
Gianni Amelio, regista che ha meriti indiscussi nell’aver creato un linguaggio tutto suo in una manciata di film di enorme spessore, sembrava aver perso strada e ispirazione: perché ne La stella che non c’è, o L’intrepido, la mesta malinconia che distingueva i suoi personaggi era diventata mollezza, a tratti bozzetto didascalico (come nel film con Albanese). Se con La tenerezza sembrava aver ritrovato una grinta non indifferente con un equilibrio invidiabile tra le varie componenti, Il signore delle formiche fa invece ripiombare lo stile del regista calabrese in una sorta di retrivo didascalismo che appesantisce e fin troppe volte oscura quello di buono che c’è nella storia. Non c’è dubbio che la difficile storia di Braibanti è il pretesto per Amelio per levarsi più di un sassolino dalla scarpa e sfogare diverse emozioni represse nel suo vissuto passato (e magari anche presente). Ma se è vero – come è vero – che i film vanno giudicati al di là delle intenzioni dei loro autori, l’opera presentata, non senza polemiche e fischi a Venezia 79, risente fin troppo dei moti interiori del regista per distaccarsene.
In diverse sequenze – come quelle riguardanti l’avvocatino catanzarese dai cattivi e disgustosi pensieri – la drammaturgia risente troppo delle pesantezze del “film a tema” nonché dei rimaneggiamenti che Amelio stesso ha fatto in fase di scrittura, riplasmando la vicenda umana e giudiziaria del protagonista per creare una sorta di autobiografismo spurio e mascherato. A cascata, Il signore delle formiche ha un impianto cinematografico polveroso e una messa in scena ridondante, inutilmente roboante nei punti di svolta, addirittura ingessato, con un immaginario che troppo spesso sembra uscito da una mediocre fiction anni ‘90 quando il controluce sembrava essere la tecnica migliore per sottolineare una frase.
E ne risente inevitabilmente anche il personaggio dell’altrimenti bravo Elio Germano: posticcio nel suo essere fin troppo moderno (siamo nel 1964), il suo giornalista prende le sembianze di un grillo parlante saputello ed enigmatico, risultando una zeppa narrativa fastidiosa. Efficace anche Luigi Lo Cascio che dà al suo Bairbanti una giusta asetticità sia metaforica che caratteriale; con un carisma interpretativo che risulta ancora di più in un film dove tutti, dal figurante fino a Sara Serraiocco, si muovono insolitamente spaesati in scena quando non completamente privi di ogni consapevolezza recitativa: sarebbe curioso sapere perché, una volta sostituito il padre storico di Ettore con la madre nella finzione, sia stata scelta come attrice la totalmente inadeguata Anna Caterina Antonacci per la figura di una madre tutta lacca e crocefisso, impastata per risultare programmaticamente in negativo, senza sfumature.
Tutto questo è immerso in una fotografia vintage che sul finale confonde anche i cromatismi (con inutili passaggi in bianco e nero) che sembra rincorrere l’amarcord e l’affabulazione – e i suoni – “avatiani” senza però averne la potenza e soprattutto l’onestà interiore.
Un passo falso che suona ancora più sbagliato proprio nel nostro momento storico, perché il processo all’omosessualità che fu poi preso in mano dal Partito Radicale è una storia potenzialmente potentissima quando soffiano sempre più forti venti di repressione e di sedazione verso moti umani che sembravano diritti acquisiti.
È per questo motivo che Il signore delle formiche, opera numero tredici di Amelio, avrebbe dovuto sapersi distaccare da un pericoloso personalismo (che ha fatto sì che diventasse un je accuse pieno di rabbia repressa anche verso una terra, la Calabria, che probabilmente ha creato più di una sofferenza in passato nel regista) legando giustamente il privato – ma di Bairbanti – all’universale, però come proprio lo stesso regista riusciva a fare anni fa, quando con le storie piccole e giganti di Così ridevano o Lamerica riusciva a filtrare le sue emozioni con una sensibilità rara e soprattutto con una felice mano autoriale.