La porta d’Occidente
A metà anni Cinquanta Trieste diviene un’ambita meta turistica e commerciale per i cittadini più abbienti della vicina Jugoslavia. Il fenomeno assume proporzioni incredibili fra gli anni Settanta e Novanta, quando in particolare Piazza Ponterosso si trasforma nel principale mercato per prodotti difficilmente reperibili nei paesi slavi, primo fra tutti l’americanissimo jeans. Per anni sono soprattutto i mercati di Trieste a rifornire di queste merci l’Est Europa comunista; l’afflusso di dinari muove l’economia triestina finché la dissoluzione della Repubblica Jugoslavia spezza questo fragile equilibrio.
In poco più di un’ora di durata, Trieste, Yugoslavia riesce a fare quasi tutto quello che si può chiedere a questo tipo di documentari: ricostruisce con ottimo livello di dettaglio le diramazioni storico-economiche del fenomeno, dalle filiere distributive al ruolo di cambiavalute più o meno clandestini, fino agli aspetti legislativi e doganali dell’interscambio commerciale fra l’Italia e i paesi dell’allora Jugoslavia; per poi suscitare una serie di interrogativi di taglio culturale e politico, che costituiscono preziosi spunti di riflessione sul valore emblematico che questa parentesi di “permeabilità” poté rivestire nel contesto di polarizzazione ideologica del secondo Novecento.
Il primo, piccolo culture shock che la visione restituisce è sicuramente la scoperta dell’entità del canale comunicativo fra un paese del blocco occidentale capitalista e una federazione che – per quanto largamente indipendente dall’autorità di Mosca – apparteneva pur sempre alla galassia comunista. Sorprende allora vedere gli sforzi compiuti da ambo le parti per raggiungere un equilibrio amichevole e proficuo, col mondo politico italiano che per bocca di Aldo Moro dichiara la vicinanza fra Italia e Jugoslavia, mentre quest’ultima si lascia sedurre dagli status symbol italiani e dai prodotti che fanno bella mostra di sé in questa vetrina del vicino/lontano Occidente. A tal proposito, da italiani così spesso autocritici ed esterofili, è rinfrescante e finanche commovente scoprire la prospettiva jugoslava di quei decenni sul nostro paese. Com’era vista da Est l’Italia fra gli anni Sessanta e Novanta, con le sue criticità e zone d’ombra, ma anche con il fermento del boom economico e le repentine accelerazioni artistico-culturali (pensiamo soprattutto al cinema)? A quanto pare, era un luogo dall’esotismo irresistibile, dove ci si poteva tenere “al passo” col mondo occidentale acquistando capi di vestiario altrimenti introvabili o – come raccontava Kusturica in Ti ricordi Dolly Bell? – comprando il biglietto per film che in Jugoslavia sarebbero arrivati con anni di ritardo. In tutto questo, va detto, l’Italia “porta d’Occidente” assumeva anche un secondo valore, cioè quello di anticamera o surrogato dell’America. Il paese simbolo del capitalismo, lontanissimo politicamente e geograficamente, si poteva raggiungere qui da noi, a pochi chilometri da casa, tramite beni di consumo filtrati non di rado attraverso la sensibilità italiana. Dai jeans, spesso prodotti nello Stivale ma così irresistibilmente emananti le immagini in celluloide di Brando nel Selvaggio (1953) e Dean in Gioventù bruciata (1955), fino alla mistica del West, che in Jugoslavia oltre che col cinema arrivava soprattutto tramite edizioni tradotte del fumetto nostrano alla Tex. Il documentario di Bozzer non lesina nemmeno sugli aspetti più spiacevoli di questa storia, come la xenofobia di tanti commercianti italiani, che avrebbero preferito che i loro migliori clienti “spedissero i soldi da casa senza venire qui”. E invece, come palesato dalla crisi nera che investì la città dopo la dissoluzione della Jugoslavia, erano loro a tenere in piedi un’economia priva di solide basi imprenditoriali. La città dove capitalismo e comunismo si davano la mano poggiava su un precario equilibrio sconfinante nella codipendenza economica. In questo senso Trieste era davvero Jugoslavia.