Quando ho cominciato a formulare questa recensione, pensavo che Men di Alex Garland mi fosse piaciuto. Mi sono resa conto in corso d’opera che la mia opinione è invece totalmente condizionata dalla terza parte del film: se i primi due atti sono molto buoni, lo scioglimento è così incoerente, pasticciato e francamente stupido da farmi odiare tutto il resto.
La sempre eccezionale Jessie Buckley interpreta Harper, una londinese che trova rifugio nella poetica campagna inglese dopo un evento traumatico legato al suo divorzio. L’idillio agreste viene presto spezzato: gli uomini nel villaggio (che hanno tutti la faccia di Rory Kinnear, impeccabile in tutti i suoi alter ego) si comportano in maniera molto strana e, in alcuni casi, sembrano perseguitarla.
Alex Garland delinea chiaramente il tema centrale sin dal titolo – Men. Si potrebbero scrivere (e sono state scritte) biblioteche intere su come definire le donne attraverso gli uomini della loro vita sia deleterio e nauseabondo. Facendo ad ogni modo uno sforzo di astrazione dal femminismo “vero”, la sua è una scelta interessante e nello Zeitgeist, ed è apprezzabile che non sia caduto nella tentazione di dire “not all men”: in questo film tutti gli uomini fanno schifo, senza eccezione: dall’ex marito (interpretato da Paapa Essiedu), al prete, allo scolaretto (entrambi Kinnear).
L’atmosfera di Men è calibrata perfettamente; è un impeccabile esercizio di stile nel costruire un horror “slow burner”. Quello che Garland centra in pieno è la sensazione di stare perdendo il lume della ragione che spesso accompagna l’esistere da donna nel mondo: all’inizio del suo tour de force di persecuzione, Harper non è sicura se qualcuno la stia seguendo nel bosco, e poco più avanti se ci sia qualcuno che la stia osservando mentre è in casa.
La fotografia rarefatta e il suono curatissimo evocano con precisione quello stato d’animo e l’alternarsi di momenti in cui la minaccia sembra vicinissima e lontanissima; come in tutti i suoi film, ci sono shot di una bellezza tale da voler fermare il film per poterli ammirare.
Purtroppo (e su intenzione di Alex Garland) il terzo atto non porta a nessuna risoluzione. Ci sono cose che possono rimanere inspiegate e lasciate allo spettatore, ad esempio l’espediente che tutti gli uomini siano Rory Kinnear. Ad ogni modo, è bizzarro che elementi ricorrenti e essenziali all’atmosfera di Men, come la trasformazione in un semi-dio folk horror di uno degli orribili uomini, non vedano mai una conclusione e non abbiano nessuna parte nel climax (che d’altronde è insensato) del film.
Nel momento in cui il centro della storia dovrebbe venire dipanato, Men si trasforma invece in un’assurda sequenza di body horror che, come dice il nome, è fattualmente horror, ma è anche un fuoripista totale rispetto al resto della storia, e soprattutto una scappatoia per evitare di dover affondare i denti nei temi che sono stati sventolati sotto il naso dello spettatore fino a quel momento. La mancanza di una chiusura per Harper danneggia irreparabilmente Men. Per fare un film sulla mascolinità tossica serve effettivamente che ci sia un commento sulla mascolinità tossica: senza una conclusione a tono, diventa solouna parata di umiliazione, torture piscologiche e iper-violenza contro una protagonista. Questo risulta ancora più stomacante considerando quanto Garland sia costante nell’assoggettare le sue protagoniste femminili a traumi orribili – si pensi a Sonoya Mizuno nella (stupenda) serie Devs, o Alicia Vikander in Ex Machina.
Il suo approccio, genuinamente interessante e perturbante per quasi tutto il film, tra corvi che spaccano finestre e mele del peccato originale, si smaschera come sciocco e superficiale; invece che una critica, rimane poco più che voyeurismo della violenza contro le donne.