Storia e gameplay: l’unione fa la forza?
I problemi coniugali di Cody e May sono al centro della vicenda narrata da It Takes Two. Quando comunicano a Rose l’intenzione di divorziare, il dolore della figlia – combinato alla lettura di un manuale per la terapia di coppia dal dubbio gusto – getta su di loro un incantesimo che li fa incarnare in due bambole. L’ambiente di casa diventa così lo scenario di una coercitiva terapia coniugale che consiste in una serie di prove da sostenere, con lo scopo di risollevare il loro rapporto e far tornare a sorridere la bambina.
I videogiocatori sono chiamati a interpretare i genitori-pupazzi in un’avventura platform in terza persona pensata per essere intrapresa necessariamente in due, con schermo diviso a metà.
Tutti gli enigmi, le sfide e le battaglie possono infatti essere risolti solo tramite l’uso combinato di abilità diverse che il gioco rende disponibili a mano a mano nelle varie aree esplorate. Questa cooperazione, il cardine della narrazione e al contempo delle dinamiche di gioco, è un ulteriore sviluppo di un discorso iniziato coi precedenti Brothers: A Tale of Two Sons e A Way Out dal direttore artistico Josef Fares. Nel primo, la collaborazione era in realtà trattata nella storia ma in un’avventura per giocatore singolo, il quale in maniera molto originale muoveva entrambi i protagonisti e risolveva gli enigmi facendo interagire, per così dire, la mano destra con la mano sinistra. Il secondo, un classico racconto di fuga da un penitenziario, impostava già lo split screen e prevedeva la complicità fra due giocatori, in una stessa stanza, di fronte a un solo televisore. It Takes Two, oltre a estremizzare il tema della collaborazione, facendolo deflagrare nella metafora del rapporto coniugale, aggiunge l’elemento del gioco a distanza.
In questa chiave, è particolarmente gradito, nonché in linea con lo spirito del gioco stesso, il Pass Amici, ossia la possibilità di giocare da remoto con una persona che non ha acquistato il titolo. Il gameplay è ben congegnato (finanche eclettico, quando imita altri generi videoludici) e non sono nemmeno così spiacevoli le frequenti sequenze in cui sostanzialmente i giocatori guardano i loro personaggi sfrecciare su rotaie aggrovigliate, in vorticosi effetti da ottovolante, aspettando di premere il pulsante al momento giusto per non interrompere il flusso. Soprattutto se si tiene conto che gli scenari in cui i personaggi miniaturizzati si muovono – con echi nostalgici da titoli cult anni Ottanta come Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi – spiccano per la loro qualità estetica, oltre che per l’inventiva (in netta contrapposizione con le scadenti cinematiche).
Se dal punto di vista delle dinamiche di cooperazione il titolo della svedese Hazelight raggiunge una vetta, per quanto riguarda la storia segna invece un’involuzione rispetto ai suoi predecessori. Il limite maggiore è quello di prendere come riferimento un modello di racconto hollywoodiano di largo consumo e non riuscire a ribaltarlo o elevarlo, forse nel tentativo di accattivare un pubblico troppo eterogeneo. È chiaro che l’intento, in un gioco che fa della condivisione la sua cifra essenziale, sia quello di dare in pasto un mondo ai videogiocatori, con la consapevolezza che quanto più si dimostrerà classico e stucchevole tanto più verrà messo alla berlina. Ma il tentativo qua è sfacciato, e anche quando si spaccia per trash non sembra crederci fino in fondo.
Resta il divertimento insito nelle meccaniche di gioco, che non avrebbe bisogno di impalcature, pretesti o retorica spiccia per produrre (o rovesciare) senso e coinvolgimento.